• La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
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    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • Konrad Lorenz, médecin et nazi notoire
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Konrad_Lorenz

    Il est toujours difficile de déterminer combien le nazisme contribue à l’essence de l’idéologie médicale, et si dans le sens inverse pensée et pratique médicale ont contribué à la genèse du nazisme. L’essentiel pour nous et nos contemporains sont les effets de ces idéologies que nous rencontrons dans la vie quotidienne.

    La partie de l’article de Wikipedia (fr) qui parle de la part du nazisme dans la vie et l’oeuvre du célèbre médecin-éthologue Konrad Lorenz nous fournit quelques informations qui renforcent l’impression que l’époque nazie n’ a jamais touché à sa fin.

    Konrad Lorenz a cru au nazisme et a adhéré au parti nazi en 1938[2]. En 1940, cela l’aida à être nommé professeur à l’université de Königsberg (aujourd’hui Kaliningrad) où il occupa la chaire d’Emmanuel Kant.

    Eugéniste, il est également membre du « département de politique raciale » du parti, produisant conférences et publications. En accord avec les postulats biologiques de l’idéologie nazie, il écrit, par exemple, dans une lettre à Oskar Heinroth, lors de la déclaration de guerre de la Grande-Bretagne à l’Allemagne : « Du pur point de vue biologique de la race, c’est un désastre de voir les deux meilleurs peuples germaniques du monde se faire la guerre pendant que les races non-blanches, noire, jaune, juive et mélangées restent là en se frottant les mains »[3].

    Selon ses dires, il ne prit conscience des atrocités commises par le nazisme qu’« étonnamment tard », vers 1943-44, à hôpital militaire de Poznań où il s’occupait des soldats de la Wehrmacht en état de choc post-traumatique, lorsqu’on lui demanda de participer à un programme impliquant des « expertises raciales » pour la sélection de Polonais d’ascendance allemande qui ne devaient pas être réduits au servage comme les « purs Slaves »[4]. Il vit alors des trains de détenus tziganes à destination des camps d’extermination. C’est seulement alors qu’il comprend, dans toute son horreur, la « totale barbarie des nazis ».

    Les atrocités ne sont pas essentielles pour le nazisme mais plutôt une des multiples conséquences de son caratère profondément inhumain. La fondation de la dynastie des Qin (-221), la révolte des Taiping (1851–1864) et la conquête de l’Asie par l’impérialisme japonais (1905-1945) n’ont rien á envier à l’holocauste ou à la guerre d’extermination anti-slave de nos ancêtres. Ne parlons pas de l’hécatombe de l’époque après 1945 car on risque de confondre leurs véritables raisons avec les idées que nous nous faisons de l’époque 39-45.

    Je préfère la définition du nazisme comme une forme d’idéologie extrêmement inconsistante qui peut alors servir à justifier toute forme d’acte inhumain dans l’intérêt de classes au pouvoir. Le caractère contradictoire de leur idéologie d’imbéciles s’adapte facilement aux besoins du moment.

    Voici un point commun avec la « science » médicale qui n’en est pas au sens précis du terme mais un « art » qui se prête à toute forme d’interprétation. L’histoire de Lorenz, de ses recherches et de ses disciples confirment cette hypothèse.

    La controverse publique sur l’affiliation de Konrad Lorenz au parti nazi commence lors de sa nomination pour le prix Nobel. Cette controverse porte sur un article publié dans le Journal de psychologie appliquée et d’étude du caractère (Zeitschrift für angewandte Psychologie und Charakterkunde) en 1940, « Désordres causés par la domestication du comportement spécifique à l’espèce » (Durch Domestikation verursachte Störungen arteigenen Verhaltens). Cet article est publié dans un contexte de justification scientifique de restrictions légales contre le mariage entre Allemands et non-Allemands. Lorenz ne cache pas cette publication, il la cite abondamment et en reprend les idées dans la plupart de ses livres. Il y développe le concept de l’« auto-domestication de l’Homme », selon lequel « la pression de sélection de l’homme par l’homme » conduirait à une forme de « dégénérescence » de l’espèce humaine, touchant surtout les « races occidentales », tandis que les « souches primitives » seraient épargnées par cette « dégénérescence ».

    Il s’agit d’une entorse au suprémacisme aryen des nazis, dont il dira plus tard[5] :

    « L’essai de 1940 voulait démontrer aux nazis que la domestication était beaucoup plus dangereuse que n’importe quel prétendu mélange de races. Je crois toujours que la domestication menace l’humanité ; c’est un très grand danger. Et si je peux réparer, rétrospectivement, l’incroyable stupidité d’avoir tenté de le démontrer aux nazis, c’est en répétant cette même vérité dans une société totalement différente mais qui l’apprécie encore moins. »

    Mais le style pro-nazi de cet article, adoptant un ton délibérément politique et non scientifique, utilisant largement le concept de race humaine et publié dans un contexte de haine raciale, entraîne les détracteurs de Lorenz à contester sa nomination au prix Nobel, et cause une polémique dans la communauté des sciences humaines, en particulier au sein de l’école de behaviorisme américain. En effet, le long combat de Lorenz contre les théories de cette école, en ce qui concerne les comportements innés et acquis, lui valut beaucoup d’ennemis. Notons, entre autres, l’article de Lehrman de 1953, dans Quarterly Review of Biology : « Une critique de la théorie du comportement instinctif de Konrad Lorenz » citant le caractère et les origines « nazis » des travaux de celui-ci.

    La controverse au sujet de l’article de 1940 s’amplifie après la publication dans Sciences en 1972 d’un discours prononcé au Canada par Léon Rosenberg, de la faculté de médecine de Harvard, et la publication par Ashley Montagu, un anthropologue opposé à la théorie des instincts de l’homme de Lorenz, de la conférence d’Eisenberg : « La nature humaine de l’homme ». Dans cette conférence, l’article de 1940 est critiqué comme s’il s’agissait d’un article à caractère scientifique et actuel. Il s’agit d’une demi-page (sur plus de 70) des pires passages politiques cités hors contexte et se terminant par : « Nous devons - et nous le ferons - compter sur les sentiments sains de nos meilleurs éléments pour établir la sélection qui déterminera la prospérité ou la décadence de notre peuple… ». Si cette dernière proposition semble prôner un eugénisme nazi, l’affirmation que les meilleurs éléments ne sont pas nécessairement « aryens » et donc que certains « aryens domestiqués » devraient céder leur place à des représentants « plus sains » d’autres races, allait à l’encontre de l’idéologie nazie. Dans sa biographie, Lorenz laisse sous-entendre qu’il fut envoyé sur le front de l’Est pour cette raison.

    Il n’en reste pas moins que Lorenz ne parait guère dérangé par le nazisme, ni sur le plan éthique, ni sur le plan de la rigueur scientifique en biologie, et de plus, il accepte naïvement le Prix Schiller qui lui avait été proposé par un vieux membre conservateur de l’Académie bavaroise des sciences. Or ce prix provient d’un groupe néo-nazi : quand il en est averti, Lorenz prétexte être alité et envoie son fils Thomas et son ami Irenäus Eibl-Eibesfeldt annoncer que les 10 000 marks de ce prix seront versés au compte d’Amnesty International. Finalement, l’argent du prix n’est jamais versé, mais Lorenz laissa l’image d’un chercheur facilement aveuglé par le rôle de l’agressivité, la notion d’inégalité biologique des individus et des groupes, le « darwinisme social », la théorie anthropologique du bouc émissaire et l’élitisme eugénique, considérant la néoténie comportementale comme une « dégénérescence » et non comme un facteur d’évolution, d’adaptabilité et de diminution de la violence (il ajoute toutefois que « c’est par le rire que les Hommes aboliront la guerre »)[6].

    Le progrès technologique nous pond des machines faites pour réproduire et multiplier des morçeaux d’idéologie sous forme de code informatique, images et textes d’une clarté superficielle. On y puise même des conseil pour le mangement d’entreprise. Quant à leur manière de « penser » ChatGPT et consorts sont comparables à des imbéciles comme Alfred Rosenberg. En utilisant l’IA nous introduisons dans notre vie la pensée et les méthodes intellectuelles derrière l’holocauste.

    Les théories et définitions de Konrad Lorenz y sont pour quelque chose.

    Übersprungbewegung, Übersprunghandlung, Übersprungverhalten ; engl. : displacement activity, substitute activity, behaviour out of context
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/%C3%9Cbersprungbewegung

    Der Fachausdruck wurde von Nikolaas Tinbergen und Adriaan Kortlandt in die Ethologie eingeführt.[1][2] Nikolaas Tinbergen beschrieb ihn wie folgt: „Diese Bewegungen scheinen irrelevant in dem Sinne zu sein, dass sie unabhängig vom Kontext der unmittelbar vorhergehenden oder folgenden Verhaltensweisen auftreten.“[3] Gedeutet wurde solches, dem Beobachter „unpassend“, ohne nachvollziehbaren Bezug zur gegebenen Situation erscheinendes Verhalten als Anzeichen „eines Konfliktes zwischen zwei Instinkten“,[4] weswegen die Fortführung des zuvor beobachtbaren Instinktverhaltens – zumindest zeitweise – nicht möglich ist und stattdessen eine Verhaltensweise gezeigt wird, die (der Instinkttheorie zufolge) aus einem völlig anderen – dritten – Funktionskreis des Verhaltensrepertoires stammt.

    Spätere verhaltensbiologische Forschung deutete ursprünglich als Übersprungbewegung interpretierte Verhaltensweisen als soziale Signale und damit als keineswegs irrelevant im jeweiligen Kontext.

    #iatrocratie #nazis #médecine #éthologie #histoire #sciences #idéologie #biologie

  • voit bien que ça ne colle pas, que ce n’est pas cohérent : quand on plisse les yeux et qu’on se concentre très fort on distingue nettement plein de petites choses qui ne tombent pas en face, il y a des accrocs dans la toile, des approximations, des trous dans l’espace-temps, des années omniprésentes et d’autres qui disparaissent, des inversions de relations de causes à effets, et dès lors on a beau refaire à l’envi tous les calculs on parvient toujours peu ou prou au même résultat qui est que la vie ne saurait réellement exister, qu’il devient de plus en plus évident que c’est un simple modèle mathématique bourré d’erreurs — à moins que celles-ci soient délibérées afin que l’on s’aperçoive que la construction n’est justement qu’une construction, hypothèse ajoutant une dimension supplémentaire à l’abîme de désarroi et de perplexité dans lequel nous nous trouvons.

    Systématiquement en se réveillant le matin la vieille punkàchienne se sent comme aspirée par un vortex.

    Cette sensation de vertige face à l’absurde ne s’arrange évidemment pas les jours où, en allumant innocemment la radio restée bloquée sur France Cul’, elle tombe directement sur Finkielkraut.

    #EtHopUneBallePerdue.

  • Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/04/23/au-large-de-djibouti-au-moins-16-migrants-morts-et-28-disparus-lors-d-un-nau

    Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    Le Monde avec AFP
    Au moins vingt et un migrants, dont des enfants, sont morts, et vingt-trois autres sont portés disparus après le naufrage de leur embarcation au large de Djibouti, dans la Corne de l’Afrique (à l’est du continent), a annoncé, mardi 23 avril, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), lors d’un bilan actualisé en soirée.Le bateau était en route vers la côte djiboutienne après avoir quitté le Yémen, lundi vers 19 h 30, a fait savoir la cheffe de mission de l’OIM à Djibouti, Tanja Pacifico. « Les opérations de recherche et de sauvetage par les autorités locales et l’OIM sont en cours », a affirmé l’organisation onusienne sur X. Sur les 77 migrants à bord de l’embarcation, vingt et un corps ont été retrouvés, dont ceux d’enfants, selon Mme Pacifico.
    L’ambassadeur éthiopien à Djibouti, qui a confirmé que trente-trois personnes, dont une femme, avaient survécu, a exprimé sa « peine profonde (…) devant la succession d’horribles désastres », et réclamé l’adoption de « mesures légales » contre « les trafiquants d’êtres humains qui mettent les vies de nos citoyens en danger ».
    Il s’agit du deuxième naufrage rapporté par l’OIM au large de Djibouti en quelques semaines, après un autre le 8 avril, dans lequel au moins trente-huit personnes, dont des enfants, ont péri. La « route de l’est », empruntée par les migrants venant de la Corne de l’Afrique pour rejoindre l’Arabie saoudite via le Yémen en guerre, est considérée par l’agence comme « l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus complexes d’Afrique et du monde ».
    Le 8 avril, l’OIM a estimé qu’au moins 698 personnes, y compris des femmes et des enfants, ont péri le long de la « route de l’est » en 2023, mais « ce chiffre pourrait être plus élevé car certaines tragédies passent souvent inaperçues ». En novembre 2023, soixante-quatre migrants avaient disparu, présumés morts en mer, lors d’un naufrage au large des côtes du Yémen, rappelle l’OIM.
    Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak
    Outre les naufrages, les migrants sont confrontés le long du chemin à « la famine, aux risques sanitaires, aux trafiquants et autres criminels », et manquent « de soins médicaux, de nourriture, d’eaux, d’un abri », souligne l’organisation.
    Selon l’OIM, les Ethiopiens représentent 79 % des quelque 100 000 migrants arrivés en 2023 au Yémen depuis les côtes de Djibouti ou de Somalie, le reste étant des Somaliens. La plupart d’entre eux évoquent des motifs économiques à leur départ, mais une partie met aussi en avant les violences ou les catastrophes climatiques en Ethiopie. Deuxième pays le plus peuplé d’Afrique, l’Ethiopie est déchirée par de nombreux conflits et plusieurs régions ont souffert ces dernières années d’une importante sécheresse. L’inflation est galopante et plus de 15 % des 120 millions d’habitants dépendent de l’aide alimentaire.

    #Covid-19#migrant#migration#ethiopie#yemen#djibouti#routemigratoire#traversee#mortalite#naufrage#sante#migrationireeguliere

  • Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/04/23/au-large-de-djibouti-au-moins-16-migrants-morts-et-28-disparus-lors-d-un-nau

    Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    Le Monde avec AFP
    Publié hier à 16h06, modifié à 03h46
    Au moins vingt et un migrants, dont des enfants, sont morts, et vingt-trois autres sont portés disparus après le naufrage de leur embarcation au large de Djibouti, dans la Corne de l’Afrique (à l’est du continent), a annoncé, mardi 23 avril, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), lors d’un bilan actualisé en soirée.
    Le bateau était en route vers la côte djiboutienne après avoir quitté le Yémen, lundi vers 19 h 30, a fait savoir la cheffe de mission de l’OIM à Djibouti, Tanja Pacifico. « Les opérations de recherche et de sauvetage par les autorités locales et l’OIM sont en cours », a affirmé l’organisation onusienne sur X. Sur les 77 migrants à bord de l’embarcation, vingt et un corps ont été retrouvés, dont ceux d’enfants, selon Mme Pacifico. L’ambassadeur éthiopien à Djibouti, qui a confirmé que trente-trois personnes, dont une femme, avaient survécu, a exprimé sa « peine profonde (…) devant la succession d’horribles désastres », et réclamé l’adoption de « mesures légales » contre « les trafiquants d’êtres humains qui mettent les vies de nos citoyens en danger ».
    Il s’agit du deuxième naufrage rapporté par l’OIM au large de Djibouti en quelques semaines, après un autre le 8 avril, dans lequel au moins trente-huit personnes, dont des enfants, ont péri. La « route de l’est », empruntée par les migrants venant de la Corne de l’Afrique pour rejoindre l’Arabie saoudite via le Yémen en guerre, est considérée par l’agence comme « l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus complexes d’Afrique et du monde ».
    Le 8 avril, l’OIM a estimé qu’au moins 698 personnes, y compris des femmes et des enfants, ont péri le long de la « route de l’est » en 2023, mais « ce chiffre pourrait être plus élevé car certaines tragédies passent souvent inaperçues ». En novembre 2023, soixante-quatre migrants avaient disparu, présumés morts en mer, lors d’un naufrage au large des côtes du Yémen, rappelle l’OIM.
    Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak
    Outre les naufrages, les migrants sont confrontés le long du chemin à « la famine, aux risques sanitaires, aux trafiquants et autres criminels », et manquent « de soins médicaux, de nourriture, d’eaux, d’un abri », souligne l’organisation.Selon l’OIM, les Ethiopiens représentent 79 % des quelque 100 000 migrants arrivés en 2023 au Yémen depuis les côtes de Djibouti ou de Somalie, le reste étant des Somaliens. La plupart d’entre eux évoquent des motifs économiques à leur départ, mais une partie met aussi en avant les violences ou les catastrophes climatiques en Ethiopie.
    Deuxième pays le plus peuplé d’Afrique, l’Ethiopie est déchirée par de nombreux conflits et plusieurs régions ont souffert ces dernières années d’une importante sécheresse. L’inflation est galopante et plus de 15 % des 120 millions d’habitants dépendent de l’aide alimentaire.

    #Covid-19#migrant#migration#ethiopie#djibouti#yemen#routemigratoire#traversee#naufrage#mortalite#sante#migrationirreguliere

  • Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/04/23/au-large-de-djibouti-au-moins-16-migrants-morts-et-28-disparus-lors-d-un-nau

    Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    Le Monde avec AFP
    Publié hier à 16h06, modifié à 03h46
    Au moins vingt et un migrants, dont des enfants, sont morts, et vingt-trois autres sont portés disparus après le naufrage de leur embarcation au large de Djibouti, dans la Corne de l’Afrique (à l’est du continent), a annoncé, mardi 23 avril, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), lors d’un bilan actualisé en soirée.
    Le bateau était en route vers la côte djiboutienne après avoir quitté le Yémen, lundi vers 19 h 30, a fait savoir la cheffe de mission de l’OIM à Djibouti, Tanja Pacifico. « Les opérations de recherche et de sauvetage par les autorités locales et l’OIM sont en cours », a affirmé l’organisation onusienne sur X. Sur les 77 migrants à bord de l’embarcation, vingt et un corps ont été retrouvés, dont ceux d’enfants, selon Mme Pacifico. L’ambassadeur éthiopien à Djibouti, qui a confirmé que trente-trois personnes, dont une femme, avaient survécu, a exprimé sa « peine profonde (…) devant la succession d’horribles désastres », et réclamé l’adoption de « mesures légales » contre « les trafiquants d’êtres humains qui mettent les vies de nos citoyens en danger ».
    Il s’agit du deuxième naufrage rapporté par l’OIM au large de Djibouti en quelques semaines, après un autre le 8 avril, dans lequel au moins trente-huit personnes, dont des enfants, ont péri. La « route de l’est », empruntée par les migrants venant de la Corne de l’Afrique pour rejoindre l’Arabie saoudite via le Yémen en guerre, est considérée par l’agence comme « l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus complexes d’Afrique et du monde ».
    Le 8 avril, l’OIM a estimé qu’au moins 698 personnes, y compris des femmes et des enfants, ont péri le long de la « route de l’est » en 2023, mais « ce chiffre pourrait être plus élevé car certaines tragédies passent souvent inaperçues ». En novembre 2023, soixante-quatre migrants avaient disparu, présumés morts en mer, lors d’un naufrage au large des côtes du Yémen, rappelle l’OIM.
    Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak
    Outre les naufrages, les migrants sont confrontés le long du chemin à « la famine, aux risques sanitaires, aux trafiquants et autres criminels », et manquent « de soins médicaux, de nourriture, d’eaux, d’un abri », souligne l’organisation.Selon l’OIM, les Ethiopiens représentent 79 % des quelque 100 000 migrants arrivés en 2023 au Yémen depuis les côtes de Djibouti ou de Somalie, le reste étant des Somaliens. La plupart d’entre eux évoquent des motifs économiques à leur départ, mais une partie met aussi en avant les violences ou les catastrophes climatiques en Ethiopie.
    Deuxième pays le plus peuplé d’Afrique, l’Ethiopie est déchirée par de nombreux conflits et plusieurs régions ont souffert ces dernières années d’une importante sécheresse. L’inflation est galopante et plus de 15 % des 120 millions d’habitants dépendent de l’aide alimentaire.

    #Covid-19#migrant#migration#ethiopie#djibouti#yemen#routemigratoire#traversee#naufrage#mortalite#sante#migrationirreguliere

  • 86. danah boyd on freaks, geeks, queers, and lying to the US Census - Initiative for Digital Public Infrastructure at UMass Amherst
    https://publicinfrastructure.org/podcast/86-danah-boyd

    Ethan Zuckerman:
    Hey everybody, welcome back to “Reimagining the Internet.” I am your host, Ethan Zuckerman. I am here today with a dear friend of mine, danah boyd is a partner researcher at Microsoft Research, a distinguished visiting professor at Georgetown. She’s the founder of the celebrated research institute Data and Society, where she remains an advisor. She’s one of the most cited scholars on social media. Her book, “It’s Complicated the Social Lives of network teens” is really one of the key works on understanding youth and the social internet. I could keep talking about her, but you would eventually turn off this podcast.
    danah, it’s so great to have you. Welcome to the show.
    danah boyd:
    Thank you. It’s a total delight to be here with you today.

    And so when we put in regulatory frameworks, where the goal is to segment young people from these other things, we’re doing it for a political agenda and we’re not focused on a socialization process. The key to speech for me is that you socialize young people and understanding the speech acts of our world, why they play out the way they do, what is really at play, what is being contested, how do you make sense of the language that’s being thrown around you? 
    Because the other thing that I also struggle with is in the United States where we valorize that idea of quote unquote freedom of speech. We miss the whole point of freedom of speech is to be able to be a responsible speaker for an informed citizenry. It doesn’t mean the right to be amplified. Those are two different things. 
    And so I think for me, it’s this process of like, what are the consequences of your speech? If your speech hurts another person, you have to learn to pay consequences for that. 
    And that’s by the way, what young people are learning, you know, even in the school environment, like we take something like bullying. Bullying is worse in the school than it ever is at home. And we’ve known that in our data for a very long time, the irony of COVID was that bullying is integrated. 
    Turns out when kids don’t go to school, they can get bullied. It’s not that they actually went up higher because of online. The online bullying went through the floor. So it was this weird natural experiment for all of us where like school actually turns out to be the main site of meanness and cruelty and nobody’s going to be sitting there like, “let’s ban school.”

    You know, and again, we can take other parallels. Right? We have a law that says you cannot drink alcohol under 21. I’m sorry, we know the date on of this. This is not what stops people from drinking alcohol under 21. They drink it. But unfortunately they drink it in a way that they’re again not being socialized into thinking about it housely and anybody on a college campus knows that like the drinking dynamic in the United States is far more toxic than in most other countries around the world. And so this is where I find these bans are playing one set of politics and not thinking about the consequences of them, let alone how to negotiate it.

    Ethan Zuckerman:
    You and I are part of a generation who get dismissed as cyberutopians, but maybe a healthy way of looking at it is to say, we actually imagine these technologies being built consistent with our values and towards some of the goals that we hold dear, we did not did a good enough job politically ensuring that our values got built into those technologies. I think one of the interesting questions at this point is, you know, how redeemable are these spaces as we head into 2024 do we still have idealistic views of how these spaces might get used in the backdrop of our politics or is the project dismantling them building alternatives to them keeping them in a box to one extent or another?
    danah boyd:
    So I think my very definition of activism is to fight for a better future than a present. And one of the things that I love are the various versions of dreamers and activists who you do imagine and strive for and work towards a better future that doesn’t necessarily accept the present. And I think there’s really reasonable differences of view of how to get to that, you know, various versions of better futures, more inclusive futures, more equitable futures. And I think the things that I, you know, that has sort of shifted over my career is like certainly growing up as, you know, this queer kid in, you know, rural America, I saw technology in my youth as the thing that would be allowing me to go to that better future because the technology of my youth and the ways in which these technologies that I was living with were already marginalized, already appeared to align with it. So I thought that that was something I could hook to.
    At this point, the technologies of the present are entirely entangled with forms of late-stage capitalism that are about exploitation at its core. So I’m not as committed to saying that hooking my activist future and my belief of towards a better future on a fight for these technologies is going to necessarily work towards an aligned arrangement. And so I think a lot of what I’m struggling with personally and intellectually is like, how do I fight for a better future? Because I’m not committed to thinking that it’s technology.
    And this is where for me, I think like you, I was always seen as like, you know, a techno-optimist. And I think that that was, you know, a misnomer because I think that what I was, I’m an optimist that it’s possible to get to a better future. I for a long time saw technology as one of the tools in that and one of the sites where those things could play out. And I do believe that many, it’s been an amazing site of contestation that’s like made visible a whole set of values and enables so many people to come together.
    But it’s not, I’m not a tech determinist. I don’t believe that the technology is the thing. It just, it was the thing that made sense to use at the time. And I think I’m asking myself, what are the things to use now to fight for a better future.

    And so this is also one of those moments where it’s like, where do we have the political will? And we’re going to regulate technology. We’ve seen state level regulations. But I’d also like to note, most of these are actually to encourage parents to be more surveillant of young people.
    And this is one of my also big sites of frustration because I think a lot of people think that that’s actually a good thing because they imagine all parents are good. And one of the heartbreaking things about my work is learning that, like, no, not always are parents the best actor for young people.
    And it’s worse than that. When we’re in the middle of a cultural war, where we’re trying to actually encourage parents to have control over children’s bodies, you know, in this way that’s actually strategically oppressive, these are laws that are about trying to enable and encourage large mechanisms of oppression that will actually cause more damage long-term than they will actually address the problems at bay.
    So this is one of the reasons why these current debates are very disheartening for me, very confusing for me, because it’s not actually about privacy, or it’s not actually about helping young people. It’s about maximizing surveillance, giving parents power over their children, and actually making certain that we cause more harm long term under this sort of fantasy of moral values and oppression. And that scares me.

    #danah_boyd #Ethan_Zuckerman #Census #Recensement #Médias_sociaux #Parents

  • Des préjugés sexistes omniprésents dans l’IA générative selon l’Unesco

    Un rapport de l’Unesco tire la sonnette d’alarme sur la grande quantité d’idées préconçues fondées sur le genre et la sexualité dans les IA génératives. L’agence des Nations Unies plaide pour une régulation et une prise de conscience pour minimiser ces biais.

    Ce qui veut aussi dire que l’IA pourrait nous aider à faire reculer le sexisme...

    https://www.lemondeinformatique.fr/actualites/lire-des-prejuges-sexistes-omnipresents-dans-l-ia-generative-sel
    Source UNESCO : https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000388971
    #sociologie #ethnologie #sexisme #ia #llm

  • La memoria rimossa. « Il Massacro di Addis Abeba »

    Il graphic novel racconta la strage che seguì al fallito attentato al governatore e viceré d’Etiopia #Rodolfo_Graziani, avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937. La feroce rappresaglia, che costò la vita a migliaia di etiopi, è una prova incontestabile del nostro comportamento coloniale utile a smontare il mito degli “#Italiani_Brava_Gente”.

    Destinato al pubblico più vasto, il lavoro di Giacopetti è pensato come strumento utile ad affrontare la storia coloniale anche nelle scuole, per questo include un agile glossario di termini, locuzioni e acronimi che arricchiscono la lettura.

    https://www.meltingpot.org/2024/03/la-memoria-rimossa-il-massacro-di-addis-abeba

    Pour télécharger la BD :
    https://resistenzeincirenaicacom.files.wordpress.com/2024/02/a5_il_massacro_di_addis_abeba_fumetto_federazione_delle_resistenze.pdf

    #bande_dessinée #BD #livre #massacre #Addis_Abeba #Italie #Italie_coloniale #colonialisme #mémoire #19_février_1937 #Ethiopie #colonialisme #histoire

    –-

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

  • 🌻 Tournesol Talks : Décrypter les enjeux du numérique avec des experts aujourd’hui rencontre avec Anne Alombert Maître de conférences en philosophie à l’Université Paris 8, spécialisée dans les rapports entre vie, technique et esprit. Elle a étudié à l’École Normale Supérieure de Lyon et est auteure d’une thèse sur Derrida et Simondon. Ses travaux explorent les enjeux des technologies contemporaines et elle a contribué au programme de recherche dirigé par Bernard Stiegler.

    Tournesol.app est un projet de recherche participatif sur l’éthique des systèmes de recommandation

    Comment ça marche ?
    – Regardez des vidéos sur la plateforme Tournesol.
    – Donnez votre avis sur chaque vidéo en répondant à un court questionnaire.
    – Aidez-nous à identifier les vidéos d’utilité publique qui devraient être largement recommandées.
    Pourquoi participer ?
    – Votre contribution est essentielle pour faire avancer la recherche sur l’éthique des systèmes de recommandation.
    – Participez à un projet citoyen qui vise à construire un numérique plus juste et plus responsable.
    – Donnez votre avis sur les contenus que vous souhaitez voir recommandés.

    En rejoignant le projet Tournesol, vous faites un geste concret pour un numérique plus riche, plus diversifié et plus humain.
    #IA #controverses #éthique #sciencespo #medialab #intelligenceartificielle #technologie #innovation #société #avenir
    https://www.youtube.com/watch?v=Z04ouls5yB4&feature=shared

  • L’IA : entre fascination et controverses ⚖️
    Plongez au cœur des débats brûlants autour de l’intelligence artificielle (IA) dans cette interview captivante avec Dominique Cardon, professeur de sociologie à Sciences Po, et Valérie Beaudouin, directrice d’études à l’EHESS. #IA #controverses #éthique #sciencespo #medialab #intelligenceartificielle #technologie #innovation #société #avenir
    Dans cet échange éclairant, ils explorent :
    – Les différentes formes de controverses liées à l’IA
    – Les défis de la régulation de ces technologies puissantes
    – Le rôle crucial de l’éthique dans le développement de l’IA
    – La responsabilité des mondes professionnels qui utilisent l’IA

    Visionnez cette interview incontournable pour mieux comprendre les enjeux de l’IA et participer à la construction de son avenir !
    https://www.youtube.com/watch?v=d-04sLEfcRE

    a voir aussi la revue réseaux : https://www.revue-reseaux.fr

  • ’Entre-soi’, ’omerta’, ’défaillances systémiques’... Le rapport de la #commission_d'enquête étrille le fonctionnement du monde sportif | LCP - Assemblée nationale
    https://www.lcp.fr/actualites/entre-soi-omerta-defaillances-systemiques-le-rapport-de-la-commission-d-enquete-

    Dans ce document de plus de 260 pages, que LCP a pu consulter avant sa présentation en conférence de presse mardi à l’Assemblée nationale, la rapporteure Sabrina Sebaihi (Ecologiste) dresse un portrait accablant de l’univers du #sport_français, pointant l’"omerta" et l’opacité qui y ont régné, et y règnent parfois encore, aussi bien concernant les affaires ayant trait aux #violences_sexuelles et psychologiques, aux phénomènes discriminatoires, ou encore à la #gestion_financière parfois hasardeuse des fédérations. Elle confirme d’ailleurs avoir fait face à des « difficultés » pour obtenir des documents auprès de certaines instances, un phénomène « symptomatique », selon elle, du « défaut de #culture_démocratique » qui gangrène les instances sportives.

    De même, la rapporteure déplore les nombreux « mensonges, inexactitudes, approximations, expressions de déni et de désinvolture » auxquels les députés ont été confrontés au cours de leurs auditions. Résultat, pas moins de 7 signalements à la justice pour de possibles parjures ont été effectués à la suite des quelque 92 auditions menées.

    #discriminations

    Le rapport parlementaire : https://www.assemblee-nationale.fr/dyn/16/rapports/cefedespo/l16b2012-ti_rapport-enquete.pdf

  • L’hypothèse écofasciste avec Pierre Madelin (lundi soir)

    Le passage intéressant montrant comment le lien peut se faire entre extrême-droite et écologie :

    https://youtu.be/FXy2LkFY_eY?t=3131

    – l’extrême-droite peut se définir comme l’opposition à l’universalisme (son ennemi principal)
    – la nouvelle Droite se distancie du christianisme pour revendiquer un néopaganisme
    – le christianisme est la religion anthropocentrique par excellence ("croissez et multipliez-vous, soumettez la terre"). Cette critique de l’anthropocentrisme existant dans l’écologie, c’est là que peut se faire la jonction, entre un universalisme culturel et une unification du monde marchande et matérielle du monde.

    Bon, c’est pas forcément super clair finalement ce lien avec l’écologie. D’autant que, dans le suite, les intervenants s’accordent pour dire qu’un gouvernement RN aurait peu de chance d’être écolo au-delà de discours électoraux.

    Ce qui est intéressant c’est qu’il rappelle le rôle important du travail idéologique de la Nouvelle droite (De Benoist etc) dans l’évolution globale de l’extrême-droite du racisme vers l’ethno-différentialisme, qui signifie que les cultures humaines sont incommensurables entre elles (qui va à l’encontre de l’idée universaliste d’une commune humanité)
    L’extrême-droite inspirée par De Benoist peut donc reprendre à son compte la critique du colonialisme pour défendre une identité blanche, européenne etc, menacée par le métissage, la mondialisation, les migrants, etc.

    #extrême-droite #écologie #écofascisme #ethno-différentialisme

    • A propos de l’ethno-différentialisme :

      C’est son ethno-différentialisme qui conduit A. de Benoist à l’anticapitalisme.
      L’ethno-différentialisme affirme que chaque peuple a un « droit à la différence », c’est-à-dire le droit de vivre comme il l’entend. Ce droit, il l’exerce chez lui, raison pour laquelle ce droit s’accompagne d’une hostilité de principe aux migrations. L’ethno-différentialisme est la version de droite du « multiculturalisme ». Le racisme biologique étant devenu intenable avec l’émergence de la « norme antiraciste »
      déjà évoquée, il s’est transformé en différen-tialisme culturel. Les « Européens » ont bien sûr eux aussi leur « droit à la différence ». Dans un texte paru en 1974 dans Éléments, intitulé Contre tous les racismes, A. de Benoist déclare : « Si l’on est contre la colonisation, alors il faut être pour la décolonisation réciproque, c’est-à-dire contre toutes les formes de colonisation : stratégique, économique, culturelle, artistique, etc. On a le droit d’être pour le Black Power, mais à la condition d’être, en même temps, pour le White Power, le Yellow Power et le Red Power 16. » L’ethno-diffé-rentialisme, c’est la « décolonisation réciproque », autrement dit chacun chez soi. L’idée que les Blancs sont victimes de racisme, et doivent à ce titre être défendus, a fait son chemin depuis. En témoigne l’usage fait par la droite et l’extrême droite du thème du « racisme antiblanc » au cours de la dernière décennie

      Alain de Benoist, du néofascisme à l’extrême droite « respectable », Razmig Keucheyan (2017)
      https://www.cairn.info/load_pdf.php?ID_ARTICLE=CRIEU_006_0128&download=1

    • A propos de l’anti-christianisme d’extrême-droite :

      Alain de Benoist n’est pas seulement anticapitaliste, il est aussi antichrétien. Le christianisme est le « bolchevisme de l’Anti-quité », selon son expression, un égalitarisme radical où Dieu confère une égale dignité à tous. Le Christ est un précurseur de Marx, et saint Paul de Lénine. Le christianisme est de surcroît une religion « orientale », puisqu’il est né au Moyen-Orient. Importé en Europe, il a supplanté la véritable religion des Euro-péens : le paganisme. La célébration des paga-nismes antiques est un trait structurant de la Nouvelle Droite. Le courant Terre et peuple de Pierre Vial, cofondateur du GRECE et un temps membre du Front national, est celui qui l’a poussé le plus loin

      ibid

    • L’« enracinement » est un vieux thème d’extrême droite, dont Maurice Barrès a développé une version 29. Il désigne le lien qui unit un peuple et une terre par le biais d’une culture. Le « droit à la différence » de chaque peuple émane notamment de son rapport intime à son territoire, à ses forêts ou ses cours d’eau. Si A. de Benoist critique le capitalisme, c’est parce qu’il produit du « déracinement ». C’est parce que la « société de consommation » planétaire détruit les cultures,

      ibid

      conclusion de l’article

      Comment penser une contre-hégémonie ? Toute la question est de trouver, dans la crise actuelle, des éléments auxquels « accrocher » des propositions alternatives à celles de la droite, des propositions adaptées aux transfor-mations du capitalisme. La bataille des idées ne se gagne pas au niveau des seules idées abs-traitement conçues. Elle se gagne lorsque les idées résolvent au moins en partie la crise du système, tout en paraissant légitimes aux yeux de secteurs significatifs de la population. Et elles ne deviennent légitimes que lorsqu’elles permettent à cette dernière de donner un sens à sa vie quotidienne. La droite occupe le terrain, le temps presse.

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • War-related sexual and gender-based violence in Tigray, Northern Ethiopia: a community-based study

    Introduction. #Sexual_and_gender-based_violence (#SGBV) during armed conflicts has serious ramifications with women and girls disproportionally affected. The impact of the conflict that erupted in November 2020 in Tigray on SGBV is not well documented. This study is aimed at assessing war-related SGBV in war-affected Tigray, Ethiopia.

    Methods: A community-based survey was conducted in 52 (out of 84) districts of Tigray, excluding its western zone and some districts bordering Eritrea due to security reasons. Using a two-stage multistage cluster sampling technique, a total of 5171 women of reproductive age (15-49 years) were randomly selected and included in the study. Analysis used weighted descriptive statistics, regression modelling and tests of associations.

    Results: Overall, 43.3% (2241/5171) of women experienced at least one type of gender-based violence. The incidents of sexual, physical and psychological violence, and rape among women of reproductive age were found to be 9.7% (500/5171), 28.6% (1480/5171), 40.4% (2090/5171) and 7.9% (411/5171), respectively. Of the sexual violence survivors, rape accounted for 82.2% (411/500) cases, of which 68.4% (247) reported being gang raped. Young women (aged 15-24 years) were the most affected by sexual violence, 29.2% (146/500). Commonly reported SGBV-related issues were physical trauma, 23.8% (533/2241), sexually transmitted infections, 16.5% (68/411), HIV infection, 2.7% (11/411), unwanted pregnancy, 9.5% (39/411) and depression 19.2% (431/2241). Most survivors (89.7%) did not receive any postviolence medical or psychological support.

    Conclusions: Systemic war-related SGBV was prevalent in Tigray, with gang-rape as the most common form of sexual violence. Immediate medical and psychological care, and long-term rehabilitation and community support for survivors are urgently needed and recommended.

    Keywords: community-based survey; health policy; injury; public health.

    https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/37479499

    #viols #viol_de_guere #Tigray #Ethiopie #guerre #conflit_armé #femmes #filles #genre #article_scientifique #statistiques #chiffres

    Un article du Washington Post sur ce sujet (#paywall):
    https://www.washingtonpost.com/world/2023/11/26/ethiopia-tigray-rape-survivors-stigma

  • Entretien avec Emilio Minassian : « Même dans les poubelles des capitalistes, il y a des divisions sociales »
    https://leserpentdemer.wordpress.com/2023/10/30/meme-dans-les-poubelles-des-capitalistes-il-y-a-des-divisi

    En ce sens, le terme « colonial » est quelque peu impropre pour désigner le rapport social qui a cours depuis le début des années 1990 en Israël-Palestine. Il a en outre le désavantage d’entériner une opposition entre deux formations nationales, qui sont en réalité produites et reproduites ensemble. Prolétaires palestiniens et israéliens sont les segmentations d’un même ensemble. Ce qui se joue depuis le 7 octobre doit être regardé comme une négociation par la violence entre le sous-traitant gazaoui et son employeur israélien. Cela doit en ce sens être nettement distingué de l’activité de lutte des prolétaires palestiniens, face à laquelle les sous-traitants du Hamas et de l’AP sont en première ligne. Elle qui n’a jamais cessé, mais à laquelle l’embrigadement nationaliste va porter un sale coup, en tout cas à Gaza.

    Au-delà de toute considération morale, le terme de « résistance », qui renvoie à l’imaginaire colonial, me semble impropre pour désigner l’opération militaire du 7 octobre : les intérêts du Hamas ne sont pas ceux des prolétaires, ils ne sont pas ceux – pour reprendre le vocable en vigueur – du « peuple palestinien ». Les prolétaires de Gaza, quel que soit le résultat de cette négociation, seront les grands sacrifiés – ils le sont déjà. Actuellement, si Israël se sentait pousser les ailes de se débarrasser de son sous-traitant, cela voudrait dire qu’il se sent les ailes de se débarrasser de ses prolétaires surnuméraires gazaouis. L’un ne peut aller sans l’autre.

    Mais d’un autre côté, je pense qu’on ne peut pas se passer d’une grille d’analyse basée sur le colonial.

    #Israël #Palestine

    • Je dirais que la première chose, c’est de considérer qu’il n’y a pas deux camps, l’un palestinien et l’autre israélien. Ces gens vivent dans un même #État et dans une même #économie. Au sein de ce même ensemble, disons israélo-palestinien – mais qui relève entièrement d’Israël –, les classes sociales non seulement s’inscrivent dans des différences de statuts juridiques sur la base de critères ethno-religieux, mais sont « zonées ». La bande de Gaza a progressivement été constituées en « réserve-prison » dans laquelle sont fixés deux millions de prolétaires renvoyés aux marges du capital israélien. Mais ce dernier demeure leur maître en dernier instance. Les Gazaouis utilisent la monnaie israélienne, consomment des marchandises israéliennes, ont des pièces d’identités émises par Israël.

      La « guerre » actuelle correspond en fait à une situation de #militarisation extrême de la #guerre_de_classe.

      Une « terre pour deux peuples », une telle grille de la situation en Israël-Palestine est aberrante. Nulle part dans le monde, la terre n’appartient aux peuples. Elle appartient aux propriétaires. Tout ça peut sembler très théorique, mais l’existence même des rapports sociaux viennent renvoyer cette idée des « camps » à ceux à qui elle appartient : les dirigeants.

      #Israël_Palestine #ethnicisation_de_la_force_de_travail #travailleurs_thaïlandais

  • Le conflit qui rend fou | Mona Chollet
    https://www.la-meridienne.info/Le-conflit-qui-rend-fou

    Ces deux dernières semaines, rivée aux informations en provenance d’Israël-Palestine, j’ai eu plusieurs fois l’impression – comme beaucoup, je crois – de perdre la tête. Il y a d’abord ce télescopage permanent entre deux grilles de lecture contradictoires, qu’on pourrait appeler la grille « héroïque » et la grille « coloniale ». Source : La méridienne

  • Juifs et décoloniaux ? entretien avec le collectif #Tsedek !

    À la suite d’un article sur l’antisémitisme co-écrit par David (https://www.frustrationmagazine.fr/5-pistes-pour-combattre-lantisemitisme-a-gauche), juif révolutionnaire, nous avions démarré une discussion avec le #Collectif_Tsedek qui avait manifesté des points de désaccords. Celui-ci se décrit dans son manifeste comme “un collectif de juifs et juives décoloniaux·ales luttant contre le racisme d’État en France et pour la fin de l’apartheid et de l’occupation en Israël-Palestine” et se situe “en rupture avec les discours promulgués par les institutions juives censées nous représenter et par la majeure partie des collectifs juifs antiracistes français”. Le collectif a aussi fait parler de lui récemment grâce à une interview pour Konbini qui a beaucoup fait réagir. Entre le début et la fin de notre discussion, la situation en Palestine et Israël a connu une nouvelle crise majeure suite aux attaques du Hamas le 7 octobre 2023, qui ont donné une grande actualité à cette dernière. Il est plus que jamais nécessaire, contre toutes les simplifications et les caricatures, de faire entendre et connaître les voix juives contre le colonialisme israélien. Dans ce grand entretien, nous avons parlé de la représentation des juives et juifs en France, de l’antisémitisme, du sionisme, de l’anticapitalisme et de la situation en Israël-Palestine. Propos recueillis par Nicolas Framont.
    Pourquoi avez-vous décidé de créer votre collectif ? Quel vide vient-il combler ?

    Tsedek ! (https://tsedekdecolonial.wordpress.com) est le fruit de la rencontre de militant·e·s juifs et juives issu·e·s d’horizons différents et convaincu·e·s de la nécessité d’une voix juive décoloniale. Il est né aussi du refus d’être représenté·e·s par les institutions juives et par la majorité des collectifs juifs antiracistes actuels en France. Il nous paraissait urgent de créer une nouvelle maison politique afin de lutter simultanément contre le racisme d’État en France, l’instrumentalisation de l’antisémitisme et contre l’apartheid en Israël-Palestine. Le mot “Tsedek” renvoie au concept de justice dans la tradition juive. Une idée qui est totalement absente du discours des organisations juives se réclamant de la lutte contre l’antisémitisme et qui selon nous doit être au cœur du combat antiraciste.

    Certain·e·s d’entre nous se sont rencontré·e·s au sein de l’UJFP – l’Union Juive Française pour la Paix – un des piliers du mouvement de la solidarité avec la Palestine et de la lutte contre l’apartheid israélien en France. Notre formation politique doit beaucoup à ses militant·e·s ainsi qu’à l’antiracisme politique, porté notamment par le QG Décolonial et le média Paroles d’Honneur. D’ailleurs, la collaboration avec d’autres collectifs antiracistes est une de nos priorités.

    Nous nous opposons au discours de plus en plus répandu, y compris à gauche, qui vise à singulariser l’antisémitisme, à en faire un racisme exceptionnel, déconnecté des autres racismes tout comme un enjeu essentiellement moral, d’individu·e·s à éduquer et à former. Il est urgent de dénoncer les angles morts et les effets délétères de cet “anti-antisémitisme”, qui en plus d’éviter soigneusement d’analyser les structures qui produisent l’antisémitisme en France aujourd’hui – l’État-nation français et l’État colonial israélien – est bien souvent indifférent voire complaisant à l’égard des autres formes de racismes.

    Faire ce constat nous amène à intégrer des réflexions qui gagneraient à être abordées dans les milieux militants de gauche, portant sur la politique assimilationniste envers la communauté juive, le sionisme, le philosémitisme ou encore la mise en concurrence des minorités raciales et la colonialité de l’État français en général. Ce que nous apportons peut-être de nouveau au champ politique, c’est que nous voulons mettre l’expérience de la judéité et le rapport aux traditions juives au cœur de notre inspiration politique. Cela se traduit, entre autres, par l’organisation à venir d’événements culturels. Nous souhaitons inscrire ce rapport au culturel en rupture avec une identité juive unique telle que promue par le sionisme et le colonialisme français – par ailleurs nos émissions Twitch, intitulées Haolam Hazeh et diffusées sur la chaîne Paroles d’Honneur, traitent des fractures créées par la blanchité.
    Par qui est-on représenté.e, quand on est juive ou juif en France, et en quoi est-ce problématique pour vous ?

    Les juives et juifs en France constituent une population très diversifiée, que ce soit sur le plan social, culturel ou religieux. Il faut donc avoir conscience des limites de la question de la représentativité, d’autant plus que cette dernière relève d’abords d’enjeux politiques et de pouvoir. Pour nous, les représentants des juif·ve·s en France en disent plus sur la relation de la société française aux juif·ve·s que sur les juif·ve·s eux-mêmes.

    Les représentants les plus officiels sont, pour les plus anciens, directement issus du pouvoir napoléonien, avec l’enjeu à l’époque de placer les juif·ve·s français sous contrôle politique. C’est le cas, par exemple, du Consistoire central, qui s’occupe des affaires cultuelles. Le CRIF (Conseil représentatif des institutions juives de France), sans doute le plus connu de ces représentants, est quant à lui issu de la résistance à l’occupation allemande et à la politique nazie. À l’origine distant de la politique française et sans position sur la question du sionisme, il devient, sous l’impulsion de Mitterrand et du pouvoir en France, un acteur politique aligné sur les intérêts de la classe dirigeante et de l’État d’Israël. Le CRIF s’est d’ailleurs souvent illustré ces dernières années par des déclarations islamophobes et réactionnaires, n’hésitant pas à relativiser l’antisémitisme de l’extrême droite et du RN en particulier, pour mieux faire de la gauche et de la jeunesse des quartiers les principaux vecteurs d’antisémitisme en France.

    Différentes ONG et associations telles que l’UEJF (Union des étudiants juifs de France), AJC France (l’antenne française de l’American Jewish Committee) ou encore des collectifs juifs se revendiquant antiracistes sont également appelés à la barre dès qu’il s’agit de parler d’antisémitisme.

    Tous ces groupes alimentent à leur manière les poncifs de la droite conservatrice, en particulier la thèse du « nouvel antisémitisme », attribuant la haine des juif·ve·s aux populations musulmanes issues de l’immigration post-coloniale. Ils participent aussi à renforcer de différentes manières l’amalgame “juif·ve = sioniste”, et jouent un rôle crucial dans la délégitimation des soutiens aux droits des Palestinien·ne·s, en accusant par exemple les militant·e·s BDS d’être antisémites ou en propageant l’amalgame “antisionisme = antisémitisme”. En tant que juifs et juives, nous ne nous retrouvons donc ni dans les organisations qui défendent l’apartheid israélien ou qui attribuent l’antisémitisme aux musulman·e·s, ni dans celles qui, à gauche, tentent d’implanter ces idées sous couvert d‘un discours antiraciste.
    Dans votre manifeste, vous dîtes que l’État français fait de vous des citoyens à part : comment cela se traduit ?

    Le racisme d’État se fonde sur des catégories raciales informelles et organise la société à partir de ces catégories qu’il hiérarchise et met en concurrence les unes avec les autres. La place qu’occupent les juif·ve·s est paradoxale : les juif·ve·s sont d’un côté insolubles dans la nation, des éternels étranger·ère·s, mais feraient en même temps partie de la “civilisation judéo-chrétienne“, leurs intérêts se fondant supposément dans ceux de l’Occident. Cette articulation bancale entre antisémitisme et philosémitisme est, sans le déterminer entièrement, caractéristique du processus de racialisation des juif·ve·s aujourd’hui.

    Ajoutons que le philosémitisme [Attitude favorable envers les Juifs, en raison de leur religion, de qualités attribuées collectivement aux Juifs, et de leur statut de peuple élu de Dieu, NDLR] (qui reste une forme d’antisémitisme), de par son statut opportuniste, n’est pas une constante : il y a des séquences plus ou moins philosémites alternant avec des séquences antisémites plus explicites, selon ce que l’État bourgeois blanc juge le plus utile à ses intérêts. Ces dernières années, Macron semble trouver plus judicieux de rassurer la frange la plus réactionnaire de la bourgeoisie en lui envoyant nombre de signaux antisémites à peine voilés : les hommages aux figures historiques de l’extrême droite (Pétain, Maurras, Bainville), la présence dans son gouvernement d’un ministre qui a écrit pour l’Action Française et publiquement relayé les thèses antisémites de Napoléon, ou le silence gênant de la majorité lors de la réhabilitation en bonne et due forme de Maurice Barrès par le député LR Jean-Louis Thiériot. Cette ligne idéologique tranche nettement avec celle du gouvernement Valls par exemple, qui était plus IIIe République dans son approche, par la valorisation du rôle des juif·ve·s dans la constitution de la République et de la nation française.

    Cela n’empêche pas certains représentants politiques, y compris issus du RN, et certaines institutions de l’État de se placer comme les protecteurs des juif·ve·s afin de mieux légitimer des politiques répressives. La loi Sarah Halimi adoptée en 2021 l’illustre très bien. Ayant été présentée comme une loi venant répondre au sentiment d’insécurité de la communauté juive, elle n’a finalement abouti qu’à plus de répression pour les populations non blanches marginalisées et a renforcé l’appareil autoritaire de l’État. Comme l’illustre “l’affaire Médine” de cet été, nous traversons une séquence où la prétendue défense des juif·ve·s sert à justifier l’islamophobie d’Etat, à museler des organisations et figures des droits de l’Homme ou à créer des fractures au sein du mouvement social et de la gauche.

    Enfin, le soutien affiché de la Macronie aux juif·ve·s passe en grande partie par un soutien sans faille à Israël, avec un lobbying intense au sein du groupe parlementaire Renaissance pour faire taire dans ses rangs toute critique de l’apartheid israélien. L’adhésion de l’État français à l’idéologie sioniste fait des juif·ve·s des citoyen·ne·s de facto à part. Elle renforce l’idée que les juif·ve·s français·e·s ne sont pas entièrement français·e·s car ils appartiendraient à une nation juive qui a sa place sur le sol historique de la Palestine. Si nous ne sommes vraiment chez nous qu’en Israël, qu’est ce que cela veut dire pour nos droits, notre sécurité et notre émancipation en France ?

    Vous définissez le sionisme comme “un projet raciste colonial et ethno-nationaliste” : comment cela se fait-il qu’en France l’antisionisme soit à ce point diabolisé et amalgamé avec l’antisémitisme ? Comment sortir de ce piège ?

    L’amalgame entre antisionisme et antisémitisme relève d’abord d’un effort des organisations sionistes et des gouvernements israéliens successifs pour associer la solidarité avec les Palestinien·ne·s à l’expérience occidentale de l’antisémitisme. Ce discours se développe en réaction à la dégradation de l’image de l’État israélien sur la scène internationale, suite au début de l’occupation en 1967 et à la résolution 3379 de l’ONU adoptée en 1975 (et révoquée depuis) qui déclarait que le sionisme était une forme de racisme. Cette dégradation s’est accélérée à partir des années 80 avec l’invasion du Liban et la première Intifada.

    Partant de cet amalgame, l’identité juive passe forcément par le sionisme, l’adhésion à un projet ethnonationaliste. Juif·ve = sioniste et judaïsme = sionisme. Cette politique de propagande a rencontré un accueil bienveillant auprès des classes dirigeantes occidentales qui partagent des intérêts et des valeurs avec l’État israélien.

    En France, cet amalgame est un élément central de la construction nationale, révèle comment la France se rêve – c’est-à-dire en protectrice des juif·ve·s – et comment elle rêve les juif·ve·s de France – faisant partie d’une autre nation.

    Cet amalgame est à la fois un bouclier et une épée. Il permet à l’État français de s’absoudre à peu de frais de sa responsabilité dans la persécution des juif·ve·s d’Europe – comment pourrait-il être antisémite puisqu’il est un fervent soutien de “l’État des juif·ve·s” ? Il est aussi un moyen efficace de marginaliser socialement et politiquement les classes populaires issues de l’immigration post-coloniale, historiquement critiques du colonialisme israélien, mais aussi les militant·e·s anticolonialistes et antiracistes qui se revendiquent antisionistes.

    Aujourd’hui, la défense des intérêts de l’État d’Israël – l’impensé du colonialisme sioniste et la négation des droits des Palestinien·ne·s – est assurée par cet amalgame. Les droits et les libertés des Palestinien·ne·s sont d’abord en jeu ici, mais la sécurité des juif·ve·s en France en est aussi impactée. Car en liant le sort des juif·ve·s de France à celui d’un projet colonial suprémaciste entre la Mer et le Jourdain, elle les place inexorablement entre le marteau et l’enclume.

    Evidemment, on peut être antisémite et antisioniste, les années Dieudonné-Soral nous l’ont bien montré et ont d’ailleurs donné un élan à l’amalgame. Mais assimiler par principe l’un à l’autre relève d’une escroquerie politique et intellectuelle. Surtout si l’on ignore systématiquement les liens politiques de plus en plus visibles qui unissent les défenseurs de l’idéologie sioniste aux politicien·ne·s suprémacistes blancs et aux antisémites européen·ne·s ou étasunien·ne·s.

    Sortir du piège que constitue cet amalgame, c’est d’abord ne pas se laisser intimider par de tels dispositifs, comprendre comment ils fonctionnent et quels intérêts ils servent. C’est s’alarmer du fait qu’il dépouille l’antisémitisme de toute signification. Les crimes du colonialisme israélien étant commis par des individu·e·s se réclamant du judaïsme ou de la judéité, au nom de “l’État des juif·ve·s”, par des hommes et des femmes politiques exigeant des juif·ve·s du monde entier une solidarité inconditionnelle sous peine d’être qualifié·e·s de traîtres, nous pensons que c’est la politique israélienne, et non la lutte contre celle-ci, qui renforce l’antisémitisme.
    Dans Frustration magazine, nous avons publié un texte de David, qui se définit comme juif et révolutionnaire, sur les postures antisémites à éviter quand on est de gauche, un texte qui vous a fait réagir. Sans entrer dans les détails, qu’est-ce qui vous a fondamentalement déplu dans ce texte ?

    Sur le papier, comment ne pas être d’accord avec le postulat de David ? Il faut combattre l’antisémitisme partout, y compris à gauche. Néanmoins, David s’appuie principalement sur l’expérience individuelle de certain·e·s militant·e·s juif·ve·s de gauche. La place que prennent les récits subjectifs dans sa démonstration est problématique au regard de la pauvreté de l’étayage matériel censé soutenir son analyse. Celle-ci est dépolitisante et véhicule une conception morale de l’opposition au racisme (« le racisme, c’est mal » sic), ce à quoi nous répondons que, certes, le racisme est moralement condamnable, mais que ce n’est pas le sujet quand il s’agit de lutter contre. L’antisémitisme est réduit à ses symptômes et la question des structures qui le produisent est laissée de côté.

    Même en admettant le postulat d’un problème structurel et spécifique à « la gauche » vis-à-vis de l’antisémitisme, rien dans le texte ne constitue un début de levier permettant de le résorber. Le décalage entre son ambition louable (mettre en évidence l’antisémitisme comme point aveugle à gauche) et la faiblesse de la démonstration nous interpelle, et devrait interpeller tout·e militant·e entendant prendre la question de l’antisémitisme au sérieux.

    Les limites et impasses méthodologiques du texte de David sont porteuses de confusion. Ainsi, elles l’amènent à mettre sur un même plan d’analyse une anecdotique histoire de falafels – dont on se demande encore le rapport avec la question de l’antisémitisme à gauche – et le fait de demander à un·e juif·ve de se justifier de la politique israélienne uniquement parce qu’il ou elle est juif·ve. De même, la gauche n’étant jamais définie, on ne sait pas vraiment de qui il est question. Qui commente « Free Palestine » sous une photo de vacances d’une personne identifiée comme juive ? Est-il ou est-elle « la gauche » ? Un·e internaute lambda partageant du contenu de gauche ? Un·e militant·e encarté·e ? Un·e responsable politique ? Quel impact a réellement ce commentaire sur la sécurité des juif·ve·s et peut-il sérieusement être caractérisé d’acte antisémite ?

    Au final, deux éléments pourtant centraux dans la production et la circulation de l’antisémitisme sont ignorés. D’une part, la manière dont le sionisme et la politique israélienne sont venus percuter la question de l’antisémitisme : en associant le nom « juif » à une entreprise coloniale, en conditionnant la réalisation supposée des intérêts juifs à la spoliation et l’oppression des Palestinien·nes, l’État israélien et ses soutiens cultivent dangereusement le terrain d’un antisémitisme d’autant plus dangereux qu’il pourrait s’auto-justifier par la cause juste de la lutte contre le colonialisme et l’oppression. D’autre part, l’instrumentalisation de la lutte contre l’antisémitisme par un pouvoir d’État de plus en plus islamophobe et antisocial est ignorée. Pourtant, cette instrumentalisation nourrit l’antisémitisme et favorise sa circulation.

    Enfin, nous ne pouvons ignorer le contexte d’énonciation depuis lequel nous parlons. Ce texte s’inscrit dans une controverse lancée il y a quelques années et qui consiste à affirmer, à partir d’une position de militant révolutionnaire de gauche, que la gauche à un problème spécifique avec l’antisémitisme. Un discours qui arrive en écho à ce que l’on entend du côté de la droite et des soutiens de la politique israélienne depuis bien plus longtemps. Au regard des enjeux politiques extrêmement graves de notre époque et, notamment, ceux relatifs à la lutte contre l’antisémitisme et l’islamophobie, une telle démarche nous pose question. Nous pensons, au contraire, qu’il est urgent d’identifier clairement les structures de production de l’antisémitisme là où elles sont : à droite, à l’extrême-droite, dans le pouvoir d’Etat en France, dans la politique israélienne.

    Enfoncer des portes ouvertes ou aligner des apories n’est d’aucune utilité dans la lutte contre l’antisémitisme. Oui, il peut y avoir des personnes ou des propos antisémites « à gauche », comme on peut y trouver des personnes ou des propos sexistes, islamophobes, homophobes. Cela ne veut pas dire pour autant que « la gauche », en tant que telle, est un lieu spécifique de production de l’antisémitisme. Et, a fortiori, que la cibler est une priorité.

    Les formations ou les textes de développement personnel “5 pistes pour combattre l’antisémitisme” tel que celui de David, publié qui plus est dans une revue de gauche que nous apprécions par ailleurs, sont le symptome du manque d’analyses sérieuses de l’antisémitisme aujourd’hui ainsi que de sa dépolitisation. Une des raisons pour laquelle Tsedek ! a été fondé est justement de répondre à ce manque, et de proposer une alternative décoloniale et véritablement antiraciste.
    De nombreux intellectuels dominants ont pour habitude d’associer anticapitalisme et antisémitisme. S’en prendre à la grande bourgeoisie, ce serait toujours, dans le fond, s’en prendre aux juives et aux juifs. Que répondre à ce genre d’attaque ? Est-ce qu’elles s’inscrivent dans l’instrumentalisation des juives et juifs que vous dénoncez ?

    Dès le Moyen Âge, les juif·ve·s ont joué un rôle important dans le commerce et la finance en Europe, poussé·e·s par la théologie chrétienne dominante condamnant le prêt d’argent à intérêt, elle laissait ces activités aux « juifs maudits ». Bien qu’essentiel·le·s à l’économie médiévale, les juif·ve·s étaient, dans la pensée chrétienne, doublement damné·e·s en tant que tueurs du Christ et parasites économiques. Cette perception a perduré, constituant un substrat pour les discours antisémites et complotistes émergeant du XIXe siècle, y compris dans des courants anticapitalistes de gauche romantique, qui octroient aux juif·ve·s une relation spéciale à l’argent et au pouvoir.

    Ces discours restent en circulation aujourd’hui mais peuvent prendre des formes différentes, ré-adaptés aux besoins du moment, pour atteindre de nouveaux publics. Une chose ne change pas : ces théories permettent encore de faire passer un discours raciste pour un discours anti-système ou anti-élites et peuvent surgir partout sur l’échiquier politique. Néanmoins, elles sont produites et propagées par les extrêmes droites et dans une moindre mesure par une droite républicaine de plus en plus ouvertement raciste : le « grand remplacement » de Renaud Camus a pu être mobilisé par Pécresse, la candidate de la droite républicaine lors des élections présidentielles.

    Les éditorialistes, polémistes, think-tanks, politiques, et même certain·e·s militant·e·s antiracistes qui se font les défenseur·euse·s de la théorie du « fer à cheval », si chère au bloc bourgeois qui aime à penser que les « extrêmes se rejoignent », ont compris que l’association du « socialisme des imbéciles » avec l’anti-capitalisme et la critique de la financiarisation de l’économie portée par la gauche aujourd’hui est un moyen efficace de la décrédibiliser et de créer des fractures en son sein. Il s’agit d’une autre facette de l’instrumentalisation de l’antisémitisme et de sa redéfinition.

    L’antisémitisme a signifié des choses différentes pour différentes personnes à différentes époques. Mais cet « antisémitisme de gauche » basé sur l’association entre anticapitalisme et antisémitisme repose sur une conception rigide et confuse de l’antisémitisme, presque caricaturale. Pour essayer de trouver une cohérence dans ces accusations à la volée, cette lecture renonce à considérer la politique de façon matérialiste pour se focaliser sur ce qu’elle identifie comme des « tropes » – des phrases, des mots ou des images qui dans certains contextes politiques et historiques précis charriaient des idées antisémites mais qui, lorsqu’elles sont prises au pied de la lettre et déconnectées du contexte politique dans lequel elles sont prononcées, ne sont plus que des signifiants vides. Ainsi, de simples mots utilisés pour décrire des faits – la négation du droit international par l’Etat israélien lorsqu’il déporte Salah Hamouri, le maintien d’une personne en poste suite au remaniement ministériel d’un gouvernement en crise en la personne d’Elisabeth Borne qualifiée de “rescapée” par Mathilde Panot ou le caractère parasitaire de la classe bourgeoise – deviennent les éléments d’un discours antisémite car pouvant l’être hypothétiquement dans une autre réalité politique. Cela signifie que pour être désigné publiquement comme antisémite, il n’est plus nécessaire d’adhérer à une vision du monde antisémite caractérisée par la haine des juif·ve·s, la croyance en un complot juif, la croyance que les juif·ve·s ont engendré le communisme et/ou contrôlent le capitalisme, la croyance en l’infériorité raciale des juif·ve·s, etc. La seule présence d’un trope, qui hors d’un contexte et d’un programme politique structurellement antisémite n’est plus qu’une coquille vide, permet de dégager une soi-disant intention antisémite.

    Certes, en tant qu’anti-racistes nous savons que le discours, les mots et les images ont un rôle historique central dans la consolidation du système raciste. Mais les actes antisémites d’aujourd’hui ne reposent pas sur le système raciste de la France du XXe siècle ou de l’Allemagne des années 1930. L’antisémitisme, contrairement à l’islamophobie, n’occupe plus une place centrale dans l’idéologie dominante. Au vu de l’urgence antiraciste, nous ne pouvons laisser ces accusations fondées sur des signifiants vides et déconnectés dicter le cadre de nos luttes antiracistes.

    Il est faux et surtout dangereux d’affirmer que l’antisémitisme aujourd’hui est une production de la gauche anti-capitaliste et anti-impérialiste. Ce n’est pas de là qu’il surgit et ce n’est pas à partir de là qu’il se propage. Nous comprenons l’émotion et le sentiment d’insécurité qui est suscité lorsque l’antisémitisme est discuté en France, mais nous refusons d’en faire le vecteur de notre politique. Nous devons comprendre pourquoi des voix juives attirées par la gauche se sentent menacées par celle-ci et œuvrer pour dépasser la peur et son instrumentalisation. Mais participer à cette chasse au tropes sans la questionner pour ce qu’elle est, c’est-à-dire un outil au service de la réaction, ne fait que mettre en avant les juif·ve·s comme des victimes éternelles et permanentes. Cela marginalise celles et ceux qui subissent une violence bien plus grande aujourd’hui et fracture davantage un front antiraciste fragile qu’il nous faut construire et renforcer au plus vite.

    En conséquence, Tsedek ! veut aussi repolitiser la question de l’antisémitisme à gauche. La confusion autour de ce qu’est l’antisémitisme n’a jamais été aussi grande. Alors que d’autres organisations se focalisent sur cette chasse aux tropes, s’évertuent à séparer l’antisémitisme des autres racismes, participent à propager l’idée du nouvel antisémitisme et normalisent le sionisme, nous pensons qu’il est dangereux de déplorer les effets de cette confusion tout en en chérissant les causes.
    Depuis le début de nos échanges, la situation en Israël-Palestine a pris une tournure dramatique. Les morts se comptent par milliers. Quelle est votre analyse de l’attaque perpétrée par le Hamas en Israël le samedi 7 octobre, ainsi que de la riposte de Tsahal ? Comment vous positionnez vous dans le débat sémantique qui déchire les forces de la gauche institutionnelle quant à la caractérisation de l’attaque du Hamas ?

    À l’heure où nous écrivons ces lignes, plus de 1300 Israéliens et plus de 3000 Palestiniens de Gaza ont perdu la vie, dont de nombreux enfants. Ce décompte macabre nous donne la nausée. Nous sommes convaincus que ces morts auraient pu être évitées. Tout en déplorant l’attaque indiscriminée d’un nombre inégalé de non-combattants en Israël – enfants, femmes et hommes -, nous refusons pour autant de mobiliser la catégorie politique de terrorisme.

    Cette notion a acquis un sens bien particulier depuis les attentats du 11 septembre et de 2015 en France. Non, contrairement à ce que nous pouvons entendre en Israël et sur de nombreux plateaux français, le Hamas ne s’en ait pris ni à la présence juive en Palestine par antisémitisme, ni aux valeurs occidentales dont Israël serait le garant dans un ensemble régional hostile et arriéré. Dire cela, c’est occulter la dimension coloniale de ce qui se joue en Israël-Palestine. Relayer cette thèse, c’est insulter l’ensemble des Palestiniens qui sont victimes depuis plus d’un siècle d’une politique radicale de dépossession sur leur propre terre qui a pris et continue à prendre de nombreuses formes : exils forcés, états d’urgence militaire, assassinats ciblés, répression féroce de l’opposition pacifique, fragmentation en divers statuts juridiques du peuple palestinien, enfermement sans procès de milliers de personnes, colonisation, blocus, apartheid.

    Nous saluons le courage politique du NPA, mais aussi de LFI qui, sans pour autant épouser nos positions antisionistes (le mouvement continue de militer pour la solution à deux États par exemple), résiste aux injonctions morales violemment portées par toutes les composantes du bloc bourgeois. Contre vents et marées, elle se refuse toujours à parler de terrorisme pour caractériser l’attaque du 07/10, et ce pour deux raisons que nous partageons également. Premièrement, le terrorisme n’est pas une catégorie juridique encadrée par le droit international. Il est donc logiquement impossible d’envoyer les auteurs devant la CPI pour qu’ils répondent de leurs crimes. Deuxièmement, la catégorie de terrorisme empêche de penser et de contextualiser. Avec elle, les combattants du Hamas ne sont que des barbares assoiffés de sang juif. Ils peuvent donc être neutralisés sans que le statu quo colonial qui étouffe Gaza depuis 2007 sous la forme d’un blocus cruel ne soit remis en cause. Les autres forces de la NUPES jouent un jeu dangereux qui relève par ailleurs de l’instrumentalisation cynique d’une guerre violente : ils cherchent à isoler LFI, mais joignent la meute des soutiens inconditionnels du colonialisme israélien en épousant leur agenda sémantique – le tout, bien évidemment, sur le dos de la solidarité avec les Palestiniens.

    Et de cette solidarité, les Palestiniens en ont plus que jamais besoin ! La violence des représailles qui s’abat sur les Gazaouis est incommensurable. Elle vise indistinctement combattants et civils, au mépris des conventions les plus élémentaires du droit international. Imaginez bien, en moins de deux semaines, l’armée israélienne a déversé plus de bombes sur le territoire exigu de 360 km2 composé d’une part importante d’enfants (près de 50% de la population) que l’armée étasunienne sur l’Afghanistan en une année. En choisissant de participer au cirque organisé par la Macronie visant à exclure LFI de “l’arc républicain”, les autres composantes de la NUPES se déshonorent et ne mobilisent pas leurs forces pour exiger de la France qu’elle appelle à un cessez-le-feu immédiat, condition indispensable mais non suffisante à la reprise d’une discussion politique entre les colons et les colonisés ensauvagés par des décennies de sionisme réellement existant.
    Comment vit-on la situation actuelle, quand on est juif décolonial, au niveau individuel comme collectif ? On peut imaginer que ça doit être particulièrement violent de vivre des positions très antagonistes au sein de la communauté juive par exemple. Comment on tient le coup, quelles sont les principales difficultés que vous rencontrez ?

    Au niveau individuel, nous vivons évidemment une période extrêmement difficile et douloureuse. Les attaques du 7 octobre nous ont profondément attristés. Nous partageons cette peine avec nos proches en Israël, mais aussi en France, auprès de nos familles elles aussi extrêmement touchées par ce qu’il s’est passé. Nous avons en même temps vécu un décalage terrible et parfois déchirant avec nos proches, qui ne partagent pas toujours la même compassion que nous éprouvons pour les Palestiniens, qui meurent par milliers sous les bombardements israéliens dans la bande de Gaza. Entendre des membres de nos familles reprendre mot pour mot la rhétorique génocidaire du gouvernement israélien nous bouleverse profondément et nous rappelle à quel point la parole juive antisioniste est lourde à porter d’un point de vue individuel et affectif. Et en même temps, ces moments nous rappellent l’importance de notre engagement contre le colonialisme, et la perte d’humanité qu’il induit.

    Collectivement, nous sommes aussi extrêmement inquiets du climat actuel en France, qui transforme la situation en Israël-Palestine en un affrontement entre juifs et musulmans, un narratif qui n’aura pour répercussion que la multiplication d’actes islamophobes et antisémites. A l’échelle politique, la sécurité des juifs et des juives est une fois encore instrumentalisée pour justifier des mesures autoritaires et racistes : interdiction de manifestations en soutien à la Palestine, suspicion à l’égard des musulmans, arrestations et expulsions. En tant qu’antiracistes, nous combattons l’islamophobie et l’antisémitisme , tout en restant lucides quant à ses lieux de productions, que ce soit l’antisémitisme historique européen ou l’amalgame entre Juifs et Israël. Mais cette position, sur une ligne de crête, peut nous rendre inaudibles pour une partie de notre communauté, qui voit Israël comme la seule solution possible pour nous protéger. Nous rappellerons tant qu’il le faudra que la sécurité des juifs et des juives ne sera pas garantie tant que l’existence d’un pays qui se revendique comme foyer national du peuple juif se basera sur la négation des droits des Palestiniens. Tout comme elle ne la sera pas tant, qu’en France, la persistance de l’antisémitisme européen continuera de prospérer, tout en étant niée, au profit de l’idée fallacieuse que les musulmans représenteraient aujourd’hui la menace existentielle pour les juifs et les juives.

    https://www.frustrationmagazine.fr/juifs-tsedek

    #Israël #Palestine #Juifs_en_France #antiracisme #anticolonialisme #7_octobre_2023 #colonialisme #colonialisme_israélien #à_lire #antisémitisme #antisionisme #sionisme #anticapitalisme #décolonial #entretien #apartheid #racisme_d'Etat #justice #racisme #Juifs_de_France #manifeste #ethno-nationalisme #propagande

  • In questo mondo : qualche riflessione su #Io_Capitano

    Rappresentare il dolore, la pena e la povertà degli altri è sempre un compito delicato e complicato. La migrazione oggi, resa illegale dalla legislazione europea e spettacolarizzata dai media, è il caso più evidente. L’empatia è apparentemente generata solo quando l’anonimato dei corpi stranieri può essere individualizzato per essere raccontato. Poteri e relazioni strutturali più ampie sono solitamente allontanati dal racconto, ridotti a vaghi riconoscimenti. La storia richiede l’identificazione dell’individuo. O, almeno, questo è ciò che ci insegna la nostra cultura.

    Tutto ciò è stato istituzionalizzato sia nella filosofia politica che nei romanzi che raccontano le nostre vite. Tuttavia, è una prospettiva che ci lascia con una povertà di spiegazioni e di comprensione. Nel recente film di Matteo Garrone, Io Capitano, incontriamo tali domande e problemi. Il viaggio di Seydou e del suo amico Moussa dal Senegal attraverso il Sahel e la Libia, e poi il Mediterraneo, è intensamente raccontato in tutti i suoi strazianti dettagli. Seydou, indotto dai suoi rapitori libici a guidare un barcone verso l’Europa, sperimenta tutte le remore morali della sua responsabilità. Nonostante tutto, riesce nella sua impresa. È un eroe e c’è un (temporaneo) lieto fine. Ma sappiamo che non è così. Oltre alle torture in Libia, questi migranti affrontano anche le condizioni di quasi schiavitù in Italia. Senza documenti e protezione, sono soggetti alla condizione di non avere il diritto di avere diritti. Il sogno europeo è spesso un incubo. Intrappolata in questi meccanismi, ulteriormente codificati e rafforzati dal razzismo strutturale, questa non è certo una narrazione che può essere facilmente trasmessa. Soprattutto, se siamo onesti, essa rivela la nostra responsabilità primaria nel racconto. Nel caso del film di Garrone, la costruzione dell’Africa come luogo di estrazione umana e materiale a beneficio dell’Occidente – dalla schiavitù e l’inizio della modernità atlantica ai metalli preziosi dei nostri gioielli e cellulari – riguarda in ultima analisi la costituzione coloniale del presente. Il migrante moderno non è solo un rifugiato economico o uno sgradito portatore di crisi, ma rappresenta piuttosto il ritorno di quella storia repressa.

    Quindi, cosa sto dicendo? Il film di Garrone non avrebbe dovuto essere realizzato? È un fallimento politico ed etico (e quindi estetico)? Le cose non sono mai così semplici. La consolazione delle alternative binarie, persino del ragionamento dialettico, sfugge. Per il momento, siamo bloccati con la narrazione individualizzata, con scelte e orizzonti ridotti a una comprensione soggettiva del mondo che oscura forze più profonde e relazioni più ampie. Il trucco è lavorare su questa imposizione in modo tale da spingerci oltre questi parametri. La risposta umanista all’eroe migrante è insufficiente. Dopo tutto, ci conferma nella nostra formazione del sentimento, quella stessa formazione che ha prodotto il ‘migrante’ contemporaneo attraverso la nostra colonizzazione delle risorse umane e materiali del pianeta.

    Non c’è una formula ovvia o un’alternativa pronta. Si tratta, pensando con il cinema, di un’estetica cinematografica che ci prepara a un’altra etica in cui la nostra posizione e il nostro punto di vista sono messi in discussione, interrotti, persino emarginati o aggirati. Il metodo non può che risiedere nella pratica cinematografica stessa.

    Ho in mente due film che affrontano il percorso etico ed estetico proposto in Io Capitano. Uno è diretto nel suo stile ‘documentaristico’ come il film di Garrone: Cose di questo mondo (2002) di Michael Winterbottom. L’altro, di Abderrahmane Sissako, Aspettando la felicità (2002), suggerisce un modo poetico di riconfigurare le brutali imposizioni della modernità. Mi limito al film di Winterbottom, più vicino per stile e intenti a quello di Garrone, dove entrambi i registi europei affrontano l’alterità di altri mondi che la loro (mia) cultura ha inquadrato e ora punisce. Nel film In This World seguiamo due afghani, Jamal e Enayatullah, provenienti dal campo profughi di Shamshatoo, vicino a Peshawar, nel nord-ovest del Pakistan, mentre cercano di raggiungere Londra attraversando Iran, Kurdistan, Turchia, Italia e Francia. Enayatullah muore per soffocamento nel container che porta loro e altri migranti da Istanbul via mare a Trieste. Jamal alla fine riesce ad arrivare a Londra. La ruvida bellezza del paesaggio, la violenza dei confini e l’avidità dei trafficanti sono presenti in tutta la loro crudezza.

    Anche il giovanissimo Jamal è un eroe semplicemente per essere sopravvissuto a tutte le avversità. Tuttavia, le relazioni sociali che si creano lungo il percorso, dalla vita familiare allargata a Peshawar alla solidarietà in Kurdistan e all’amicizia nella ‘giungla’ di Calais, ci fanno costantemente entrare in un mondo più ampio. Il singolo viaggiatore non è semplicemente parte della migrazione moderna: il campo di Peshawar è presentato all’inizio del film come il prodotto dell’aggressione prima sovietica e poi americana e alleata, dove sono state spesi quasi 8 miliardi di dollari nel 2001 per sganciare delle bombe sull’Afghanistan. Le brutali semplicità della geopolitica trasformano un’odissea personale in una riorganizzazione radicale delle mappe del mondo moderno: dal basso, dai margini, dal silenzio di altre storie. Anche la mia narrazione non riesce a marcare la differenza. Ciò che si nasconde nel linguaggio cinematografico è un eccesso che allude a qualcosa in più della spiegazione verbale. L’immagine contiene sempre un supplemento in più del semplice svolgimento del racconto. Lasciarla per così dire respirare, sottraendoci alla linearità della narrazione, dissemina una complessità in cui la poetica sostiene una politica più opaca ma profonda (lo stesso si può dire del film di Sissako).

    Riflettendo sul film di Matteo Garrone, delle cui opere cinematografiche resto un ammiratore, sia l’idealizzazione della vita familiare in Senegal sia l’impeto incessante della narrazione che ci spinge verso il Mediterraneo e l’Europa ci negano quello spazio: le sue ambiguità e complessità. Le immagini sono drammatiche, i sentimenti ben intesi, ma la sua estetica resta bloccata da un’etica che ha il fiato corto, che non è disposta a scavare più a fondo e nemmeno a lasciare che il migrante abiti una storia e un mondo che non è semplicemente nostro da raccontare.

    Chiaramente, non esiste una soluzione. Solo un viaggio critico perpetuo. Nel continuum coloniale del presente i nostri fallimenti, una volta riconosciuti e registrati, segnano ulteriori percorsi da perseguire.

    http://www.technoculture.it/author/i-chambers
    #film #douleur #empathie #migrations #colonisation #présent_colonial #colonialité_du_présent #Afrique #esthétique #éthique #continuum_colonial

  • Métacartes, des communs pédagogiques pour accompagner les accompagnateurs de transition numérique
    https://framablog.org/2023/10/16/metacartes-des-communs-pedagogiques-pour-accompagner-les-accompagnateurs-

    Nous vous avons déjà parlé à plusieurs reprises du projet « Métacartes » que nous trouvons très pertinent pour aborder des sujets complexes de façon simple (et collective !). Mélanie et Lilian, les créateur⋅ices de cette initiative (et des personnes fabuleuses par ailleurs), … Lire la suite­­

    #Dans_notre_archipel #Enjeux_du_numérique #BiensCommuns #Claviers_invités #cohérence_numérique #Éducation #éthique #médiation #médiation_numérique #Metacartes

  • Immigration : une autre voie est possible, nécessaire, urgente

    « Ne pas accueillir », et « empêcher les gens d’arriver » : à l’heure où, par la voix de #Gérald_Darmanin, la France s’illustre encore dans le #repli, le #rejet et le manquement à ses obligations éthiques et légales les plus élémentaire, il apparait urgent de déverrouiller un débat trop longtemps confisqué. Quelques réflexions alternatives sur la « #misère_du_monde » et son « #accueil », parce qu’on ne peut plus se rendre complice de cinq mille morts chaque année.

    « Ne pas accueillir », et « empêcher les gens d’arriver » : à l’heure où, par la voix de Gérald Darmanin, la France s’illustre encore dans le repli, le rejet et le manquement à ses obligations éthiques et légales les plus élémentaires, et alors que s’annonce l’examen parlementaire d’un projet de loi plus brutal et liberticide que jamais, signé par le même Darmanin, il apparait urgent de déverrouiller un débat trop longtemps confisqué. C’est ce à quoi s’efforce Pierre Tevanian dans le texte qui suit. Dans la foulée de son livre « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort->, co-signé l’an passé avec Jean-Charles Stevens, et à l’invitation de la revue Respect, qui publie le 21 septembre 2023 un numéro intitulé « Bienvenue » et intégralement consacré à l’accueil des migrants, Pierre Tevanian a répondu à la question suivante : de quelle politique alternative avons-nous besoin ? De son article intitulé « Repenser l’accueil, oser l’égalité », le texte qui suit reprend les grandes lignes, en les développant et en les prolongeant.

    *

    Lorsqu’en juillet 2022 nous mettions sous presse notre ouvrage, « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort, l’association Missing Migrants recensait 23801 morts en méditerranée pour la décennie passée, ainsi que 797 morts aux frontières Nord et Est de la « forteresse Europe ». Un an plus tard, l’hécatombe s’élève à 20 089 morts en méditerranée et 1052 au Nord et à l’Est [Chiffres produits le 20 septembre 2023]. Soit 5340 vies de plus en un an, fauchées par une politique concertée qui, adossée à ce simple dicton sur la « misère du monde », s’arroge insolemment le monopole de la « raison » et de la « responsabilité ».

    C’est de là qu’il faut partir, et là qu’il faut toujours revenir, lorsqu’on parle d’ « immigration » et de « politique d’immigration ». C’est à ce « reste » consenti de la « gestion » technocratique des « flux migratoires » que nous revenons constamment, opiniâtrement, dans notre livre, afin de ré-humaniser un débat public que cinq décennies de démagogie extrémiste – mais aussi de démagogie gouvernante – ont tragiquement déshumanisé.

    L’urgence est là, si l’on se demande quelle politique alternative doit être inventée, et tout le reste en découle. Il s’agit de libérer notre capacité de penser, mais aussi celle de sentir, de ressentir, d’être affectés, si longtemps verrouillées, intimidées, médusées par le matraquage de ce dicton et de son semblant d’évidence. Ici comme en d’autres domaines (les choix économiques néolibéraux, le démantèlement des services publics et des droits sociaux), le premier geste salutaire, celui qui détermine tous les autres mais nécessite sans doute le principal effort, est un geste d’émancipation, d’empowerment citoyen, de sortie du mortifère « TINA » : « There Is No Alternative ».

    Le reste suivra. L’intelligence collective relèvera les défis, une fois libérée par ce préalable nécessaire que l’on nomme le courage politique. La question fatidique, ultime, « assassine » ou se voulant telle : « Mais que proposez-vous ? », trouvera alors mille réponses, infiniment plus « réalistes » et « rationnelles » que l’actuel « pantomime » de raison et de réalisme auquel se livrent nos gouvernants. Si on lit attentivement notre livre, chaque étape de notre propos critique contient en germe, ou « en négatif », des éléments « propositionnels », des pistes, voire un « programme » alternatif tout à fait réalisable. On se contentera ici d’en signaler quelques-uns – en suivant l’ordre de notre critique, mot à mot, du sinistre dicton : « nous » - « ne pouvons pas » - « accueillir » - « toute » - « la misère du monde ».

    Déconstruire le « nous », oser le « je ».

    Tout commence par là. Se re-subjectiver, diraient les philosophes, c’est-à-dire, concrètement : renouer avec sa capacité à penser et agir, et pour cela s’extraire de ce « on » tellement commode pour s’éviter de penser (« on sait bien que ») mais aussi s’éviter de répondre de ses choix (en diluant sa responsabilité dans un « nous » national). Assumer le « je », c’est accepter de partir de cette émotion face à ces milliers de vies fauchées, qui ne peut pas ne pas nous étreindre et nous hanter, si du moins nous arrêtons de l’étouffer à coup de petites phrases.

    C’est aussi se ressouvenir et se ré-emparer de notre capacité de penser, au sens fort : prendre le temps de l’information, de la lecture, de la discussion, de la rencontre aussi avec les concernés – cette « immigration » qui se compose de personnes humaines. C’est enfin, bien entendu, nourrir la réflexion, l’éclairer en partant du réel plutôt que des fantasmes et phobies d’invasion, et pour cela valoriser (médiatiquement, politiquement, culturellement) la somme considérable de travaux scientifiques (historiques, sociologiques, démographiques, économiques, géographiques [Lire l’Atlas des migrations édité en 2023 par Migreurop.]) qui tous, depuis des décennies, démentent formellement ces fantasmagories.

    Inventer un autre « nous », c’est abandonner ce « nous national » que critique notre livre, ce « nous » qui solidarise artificiellement exploiteurs et exploités, racistes et antiracistes, tout en excluant d’office une autre partie de la population : les résidents étrangers. Et lui substituer un « nous citoyen » beaucoup plus inclusif – inclusif notamment, pour commencer, lorsqu’il s’agit de débattre publiquement, et de « composer des panels » de participants au débat : la dispute sur l’immigration ne peut se faire sans les immigré·e·s, comme celle sur la condition féminine ne peut se faire sans les femmes.

    Ce nouveau « nous » devra toutefois être exclusif lui aussi, excluant et intolérant à sa manière – simplement pas avec les mêmes. Car rien de solidement et durablement positif et inclusif ne pourra se construire sans un moment « négatif » assumé de rejet d’une certaine composante de la « nation française », pour le moment « entendue », « comprise », excusée et cajolée au-delà de toute décence : celle qui exprime de plus en plus ouvertement et violemment son racisme, en agressant des migrant·e·s, en menaçant des élu·e·s, en incendiant leurs domiciles. Si déjà l’autorité de l’État se manifestait davantage pour soutenir les forces politiques, les collectifs citoyens, les élus locaux qui « accueillent », et réprimer celles qui les en empêchent en semant une véritable terreur, un grand pas serait fait.

    Reconsidérer notre « impuissance »… et notre puissance.

    Nous ne « pouvons » pas accueillir, nous dit-on, ou nous ne le pouvons plus. L’alternative, ici encore, consisterait à revenir au réel, et à l’assumer publiquement – et en premier lieu médiatiquement. La France est la seconde puissance économique européenne, la sixième puissance économique du monde, et l’un des pays au monde – et même en Europe – qui « accueille », en proportion de sa population totale, le moins de réfugié·e·s ou d’étranger·e·s. Parmi des dizaines de chiffres que nous citons, celui-ci est éloquent : 86% des émigrant·e·s de la planète trouvent refuge dans un pays « en développement ». Ou celui-ci : seuls 6,3% des personnes déplacées trouvent refuge dans un pays de l’Union européenne [Ces chiffres, comme les suivants, sont cités et référencés dans notre livre, « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort, op. cit.].

    Reconsidérer notre puissance, c’est aussi, on l’a vu, se rendre attentif au potentiel déjà existant : publiciser les initiatives locales de centres d’accueil ou de solidarités plus informelles, dont il est remarquable qu’elles sont rarement le fait de personnes particulièrement riches. C’est aussi défendre cette « puissance d’accueil » quand elle est menacée par des campagnes d’extrême droite, la valoriser au lieu de la réprimer. C’est donc aussi, très concrètement, abroger l’infâme « délit de solidarité » au nom duquel on a persécuté Cédric Herrou et tant d’autres. Aucun prétexte ne tient pour maintenir ce dispositif « performatif » (qui « déclare » l’accueil impossible, par l’interdit, afin de le rendre impossible, dans les faits). « Filières mafieuses », sur-exploitation des travailleurs sans-papiers, « marchands de sommeil » : tous ces fléaux sociaux pourraient parfaitement être combattus avec un arsenal légal délesté de ce sinistre « délit de solidarité » : le Droit du travail, le Droit du logement, et plus largement tout l’appareil pénal qui réprime déjà toute forme de violence, d’extorsion et d’abus de faiblesse.

    Repenser l’accueil, oser l’égalité.

    Si notre livre combat le rejet et valorise la solidarité, il critique pourtant la notion d’accueil ou celle d’hospitalité, telle qu’elle est mobilisée dans notre débat public. Pour une raison principalement : en entretenant la confusion entre le territoire national et la sphère domestique, le paradigme de l’hospitalité encourage les paniques sociales les plus irrationnelles (à commencer par le sentiment d’ « invasion »), mais aussi les régressions autoritaires les plus nocives (ce fameux « On est chez nous ! », qui assimile les étranger·e·s, fussent-ils ou elles titulaires d’un logement qui leur est propre, d’un bail ou d’un titre de propriété, à des intrus qui nous placent en situation de « légitime défense »). Ce qui est ainsi évacué du débat, c’est ni plus ni moins qu’un principe constitutionnel : le principe d’égalité de traitement de toutes et tous sur le territoire d’une république démocratique. Plusieurs dispositifs légaux, ici encore, seraient à abroger, parce qu’ils dérogent à ce principe d’égalité : la « double peine » , les « emplois réservés » – sans parler de la citoyenneté elle-même, qui gagnerait à être, comme dans la majorité des pays européens, ouvertes au moins partiellement aux résident·e·s étranger·e·s.

    Enfin, bien en deçà de ces mesures tout à fait réalisables, une urgence s’impose : avant de se demander si l’on va « accueillir », on pourrait commencer par laisser tranquilles les nouveaux arrivants. À défaut de les « loger chez soi », arrêter au moins de les déloger, partout où, avec leurs propres forces, à la sueur de leur front, ils ou elles élisent domicile – y compris quand il s’agit de simples tentes, cabanons et autres campements de fortune.

    Repenser le « tout », assumer les droits indivisibles

    Là encore la première des priorités, celle qui rend possible la suite, serait une pédagogie politique, et avant cela l’arrêt de la démagogie. Car là encore tout est connu, établi et documenté par des décennies de travaux, enquêtes, rapports, publiés par des laboratoires de recherche, des institutions internationales – et même des parlementaires de droite [Nous citons dans notre ouvrage ces différents rapports.].

    Il suffirait donc que ce savoir soit publicisé et utilisé pour éclairer le débat, en lieu et place de l’obscurantisme d’État qui fait qu’actuellement, des ministres continuent de mobiliser des fictions (le risque d’invasion et de submersion, le « coût de l’immigration », mais aussi ses effets « criminogènes ») que même les élus de leurs propres majorités démentent lorsqu’ils s’attèlent à un rapport parlementaire sur l’état des connaissances en la matière. Nous l’avons déjà dit : à l’échelle de la planète, seules 6,3% des personnes déplacées parviennent aux « portes de l’Europe » – et encore ce calcul n’inclut-il pas la plus radicale des « misères du monde », celle qui tue ou cloue sur place des populations, sans possibilité aucune de se déplacer. Cette vérité devrait suffire, si l’on osait la dire, pour congédier toutes les psychoses sur une supposée « totalité » miséreuse qui déferlerait « chez nous ».

    À l’opposé de cette « totalité » factice, prétendument « à nous portes », il y a lieu de repenser, assumer et revendiquer, sur un autre mode, et là encore à rebours de ce qui se pratique actuellement, une forme de « totalité » : celle qui sous-tend l’universalité et l’indivisibilité des droits humains, et du principe d’égalité de traitement : « tout » arrivant, on doit le reconnaître, a droit de bénéficier des mêmes protections, qu’il soit chrétien, juif ou musulman, que sa peau soit claire ou foncée, qu’il vienne d’Ukraine ou d’Afghanistan. Le droit d’asile, les dispositifs d’accueil d’urgence, les droits des femmes, les droits de l’enfant, le droit de vivre en famille, les droits sociaux, et au-delà l’ensemble du Droit déjà existant (rappelons-le !), ne doit plus souffrir une application à géométries variables.

    Il s’agit en l’occurrence de rompre, au-delà des quatre décennies de « lepénisation » qui ont infesté notre débat public, avec une tradition centenaire de discrimination institutionnelle : cette « pensée d’État » qui a toujours classé, hiérarchisé et « favorisé » certaines « populations » au détriment d’autres, toujours suivant les deux mêmes critères : le profit économique (ou plus précisément le marché de l’emploi et les besoins changeants du patronat) et la phobie raciste (certaines « cultures » étant déclarées moins « proches » et « assimilables » que d’autres, voire franchement « menaçantes »).

    Respecter la « misère du monde », reconnaître sa richesse.

    Il n’est pas question, bien sûr, de nier la situation de malheur, parfois extrême, qui est à l’origine d’une partie importante des migrations internationales, en particulier quand on fuit les persécutions, les guerres, les guerres civiles ou les catastrophes écologiques. Le problème réside dans le fait de réduire des personnes à cette appellation abstraite déshumanisante, essentialisante et réifiante : « misère du monde », en niant le fait que les migrant·e·s, y compris les plus « misérables », arrivent avec leurs carences sans doute, leurs traumas, leurs cicatrices, mais aussi avec leur rage de vivre, leur créativité, leur force de travail, bref : leur puissance. Loin de se réduire à une situation vécue, dont précisément ils et elles cherchent à s’arracher, ce sont de potentiels producteurs de richesses, en tant que travailleurs et travailleuses, cotisant·e·s et consommateurs·trices. Loin d’être seulement des corps souffrants à prendre en charge, ils et elles sont aussi, par exemple, des médecins et des aides-soignant·es, des auxiliaires de vie, des assistantes maternelles, et plus largement des travailleurs et des travailleuses du care – qui viennent donc, eux-mêmes et elles-mêmes, pour de vrai, accueillir et prendre en charge « notre misère ». Et cela d’une manière tout à fait avantageuse pour « nous », puisqu’ils et elles arrivent jeunes, en âge de travailler, déjà formé·es, et se retrouvent le plus souvent sous-payé·es par rapport aux standards nationaux.

    Là encore, la solution se manifeste d’elle-même dès lors que le problème est bien posé : il y a dans ladite « misère du monde » une richesse humaine, économique notamment mais pas seulement, qu’il serait intéressant de cultiver et associer au lieu de la saboter ou l’épuiser par le harcèlement policier, les dédales administratifs et la surexploitation. L’une des mises en pratique concrète de ce virage politique serait bien sûr une opération de régularisation massive des sans-papiers, permettant (nous sommes là encore en terrain connu, éprouvé et documenté) de soustraire les concerné·e·s des « sous-sols » de l’emploi « pour sans-papiers », véritable « délocalisation sur place », et de leur donner accès aux étages officiels de la vie économique, ainsi qu’au Droit du travail qui le régit.

    Il y a enfin, encore et toujours, ce travail de pédagogie à accomplir, qui nécessite simplement du courage politique : populariser le consensus scientifique existant depuis des décennies, quelles que soit les périodes ou les espaces (états-unien, européen, français, régional), concernant l’impact de l’immigration sur l’activité et la croissance économique, l’emploi et les salaires des autochtones, l’équilibre des finances publiques, bref : la vie économique au sens large. Que ces études soient l’oeuvre d’institutions internationales ou de laboratoires de recherche, elles n’ont cessé de démontrer que « le coût de l’immigration » est tout sauf avéré, que les nouveaux arrivant·e·s constituent davantage une aubaine qu’une charge, et qu’on pourrait donc aussi bien parler de « la jeunesse du monde » ou de « la puissance du monde » que de sa « misère ».

    Redevenir moraux, enfin.

    Le mot a mauvaise presse, où que l’on se trouve sur l’échiquier politique, et l’on devrait s’en étonner. On devrait même s’en inquiéter, surtout lorsque, comme dans ce « débat sur l’immigration », il est question, ni plus ni moins que de vies et de morts. Les ricanements et les postures viriles devraient s’incliner – ou nous devrions les forcer à s’incliner – devant la prise en considération de l’autre, qui constitue ce que l’on nomme la morale, l’éthique ou tout simplement notre humanité. Car s’il est à l’évidence louable de refuser de « faire la morale » à des adultes consentants sur des questions d’identité sexuelle ou de sexualité qui n’engagent qu’elles ou eux, sans nuire à autrui, il n’en va pas de même lorsque c’est la vie des autres qui est en jeu. Bref : l’interdit de plus en plus impérieux qui prévaut dans nos débats sur l’immigration, celui de « ne pas culpabiliser » l’électeur lepéniste, ne saurait être l’impératif catégorique ultime d’une démocratie saine.

    Pour le dire autrement, au-delà de la « misère » que les migrant·e·s cherchent à fuir, et de la « puissance » qu’ils ou elles injectent dans la vie économique, lesdit·es migrant·e·s sont une infinité d’autres choses : des sujets sociaux à part entière, doté·e·s d’une culture au sens le plus large du terme, et d’une personnalité, d’une créativité, irréductible à toute appellation expéditive et englobante (aussi bien « misère » que « richesse », aussi bien « charge » que « ressource »). Et s’il n’est pas inutile de rappeler tout le potentiel économique, toute l’énergie et « l’agentivité » de ces arrivant·e·s, afin de congédier les fictions anxiogènes sur « l’invasion » ou « le coût de l’immigration », il importe aussi et surtout de dénoncer l’égoïsme sordide de tous les questionnements focalisés sur les coûts et les avantages – et d’assumer plutôt un questionnement éthique. Car une société ne se fonde pas seulement sur des intérêts à défendre, mais aussi sur des principes à honorer – et il en va de même de toute subjectivité individuelle.

    Le réalisme dont se réclament volontiers nos gouvernants exige en somme que l’on prenne en compte aussi cette réalité-là : nous ne vivons pas seulement de pain, d’eau et de profit matériel, mais aussi de valeurs que nous sommes fiers d’incarner et qui nous permettent de nous regarder dans une glace. Personne ne peut ignorer durablement ces exigences morales sans finir par le payer, sous une forme ou une autre, par une inexpugnable honte. Et s’il est précisément honteux, inacceptable aux yeux de tous, de refuser des soins aux enfants, aux vieillards, aux malades ou aux handicapé·e·s en invoquant leur manque de « productivité » et de « rentabilité », il devrait être tout aussi inacceptable de le faire lorsque lesdit·es enfants, vieillards, malades ou handicapé·e·s viennent d’ailleurs – sauf à sombrer dans la plus simple, brutale et abjecte inhumanité.

    https://blogs.mediapart.fr/pierre-tevanian/blog/220923/immigration-une-autre-voie-est-possible-necessaire-urgente

    #complicité #Pierre_Tevanian #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #migrations #réfugiés #asile #déshumanisation #There_is_no_alternative (#TINA) #alternative #courage_politique #intelligence_collective #raison #réalisme #re-subjectivation #émotion #fantasmes #phobie #invasion #fantasmagorie #nationalisme #résidents_étrangers #nous_citoyen #racisme #xénophobie #impuissance #puissance #puissance_d’accueil #délit_de_solidarité #solidarité #extrême_droite #performativité #égalité #hospitalité #paniques_sociales #principe_d'égalité #double_peine #emplois_réservés #citoyenneté #hébergement #logement #pédagogie_politique #fictions #obscurantisme_d'Etat #droits_humains #égalité_de_traitement #lepénisation #débat_public #discrimination_institutionnelle #discriminations #déshumanisation #richesse #régularisation #sans-papiers #économie #morale #éthique #humanité #agentivité #potentialité_économique #valeurs
    #ressources_pédagogiques

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    • « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde » : la vraie histoire de la citation de #Michel_Rocard reprise par #Macron

      Le président de la République a cité, dimanche 24 septembre, la célèbre phrase de Rocard. L’occasion de revenir sur une déclaration à laquelle on a souvent fait dire ce qu’elle ne disait pas.

      C’est à la fois une des phrases les plus célèbres du débat politique français, mais aussi l’une des plus méconnues. Justifiant la politique de fermeté vis-à-vis des migrants arrivés à Lampedusa, Emmanuel Macron a déclaré hier : « On a un modèle social généreux, et on ne peut pas accueillir toute la misère du monde. »

      https://twitter.com/TF1Info/status/1706009131448983961

      La citation est un emprunt à la déclaration de Michel Rocard. La droite aime à citer cette phrase, ce qui est une manière de justifier une politique de fermeté en matière d’immigration en citant un homme de gauche. Tandis que la gauche a souvent tendance à ajouter que le Premier ministre de François Mitterrand avait ajouté un volet d’humanité en rappelant que la France devait aussi « prendre sa part » (ou « s’y efforcer »), et donc que sa formule, loin d’être un appel à la fermeture des frontières, était en réalité un appel à l’accueil.

      En réalité, comme Libération l’avait expliqué en détail il y a quelques années, les choses sont moins simples. Contrairement à ce que la gauche aime dire, cette déclaration de Michel Rocard n’était, initialement, pas vraiment humaniste, et était invoquée par le responsable socialiste pour justifier la politique draconienne vis-à-vis de l’immigration du gouvernement d’alors.

      On retrouve la trame de cette formule dans un discours prononcé le 6 juin 1989 à l’Assemblée nationale (page 1 797 du document) : « Il y a, en effet, dans le monde trop de drames, de pauvreté, de famine pour que l’Europe et la France puissent accueillir tous ceux que la misère pousse vers elles », déclare ce jour-là Michel Rocard, avant d’ajouter qu’il faut « résister à cette poussée constante ». Il n’est nullement question alors d’un quelconque devoir de prendre part à cet afflux.

      A l’époque, le climat est tendu sur la question de l’immigration. L’exclusion d’un collège de Creil de trois élèves musulmanes ayant refusé d’ôter leur foulard a provoqué, en octobre 1989, un vif débat national. En décembre, le FN écrase la législative partielle de Dreux. Les discours sur l’immigration se durcissent. Celui du PS n’échappe pas à la règle, d’autant que la gauche se voit reprocher d’être revenue sur les lois Pasqua. François Mitterrand déclare dans une interview à Europe 1 et Antenne 2, le 10 décembre 1989, que le « seuil de tolérance » des Français à l’égard des étrangers « a été atteint dans les années 70 ». Se met en place le discours qui va être celui du PS pendant quelques années. D’un côté, une volonté affichée de promouvoir l’intégration des immigrés réguliers en place (c’est en décembre 1989 qu’est institué le Haut Conseil à l’intégration). De l’autre côté, un objectif affirmé de verrouiller les flux migratoires, avec un accent mis sur la lutte contre l’immigration clandestine, mais pas seulement. Dans la même interview à France 2 et Europe 1, Mitterrand explique ainsi que le chiffre de « 4 100 000 à 4 200 000 cartes de séjour » atteint selon lui en 1982 ne doit, « autant que possible, pas être dépassé ».

      C’est dans ce contexte, le 3 décembre 1989, que Michel Rocard prononce la formule qui restera dans les mémoires. Michel Rocard est l’invité d’Anne Sinclair dans l’émission Sept sur sept sur TF1. Il précise la nouvelle position de la France en matière d’immigration et le moins qu’on puisse dire c’est que ses propos sont musclés. La France se limitera au respect des conventions de Genève, point final, explique-t-il : « Nous ne pouvons pas héberger toute la misère du monde. La France doit rester ce qu’elle est, une terre d’asile politique […] mais pas plus. […] Il faut savoir qu’en 1988 nous avons refoulé à nos frontières 66 000 personnes. 66 000 personnes refoulées aux frontières ! A quoi s’ajoutent une dizaine de milliers d’expulsions du territoire national. Et je m’attends à ce que pour l’année 1989 les chiffres soient un peu plus forts. »

      Après l’émission, Michel Rocard décline la formule à l’envi lors de ses discours les mois suivants, pour justifier de sa politique d’immigration. Le 13 décembre 1989, il déclare ainsi à l’Assemblée nationale : « Puisque, comme je l’ai dit, comme je le répète, même si comme vous je le regrette, notre pays ne peut accueillir et soulager toute la misère du monde, il nous faut prendre les moyens que cela implique. » Et précise les moyens en question : « Renforcement nécessaire des contrôles aux frontières », et « mobilisation de moyens sans précédent pour lutter contre une utilisation abusive de la procédure de demande d’asile politique ».

      Il la répète quelques jours plus tard, le 7 janvier 1990, devant des socialistes d’origine maghrébine réunis à l’occasion d’un colloque sur l’immigration. « J’ai beaucoup réfléchi avant d’assumer cette formule. Il m’a semblé que mon devoir était de l’assumer complètement. Aujourd’hui je le dis clairement. La France n’est plus, ne peut plus être, une terre d’immigration nouvelle. Je l’ai déjà dit et je le réaffirme, quelque généreux qu’on soit, nous ne pouvons accueillir toute la misère du monde », martèle-t-il devant un parterre d’élus pas très convaincus. Avant de conclure : « Le temps de l’accueil de main-d’œuvre étrangère relevant de solutions plus ou moins temporaires est donc désormais révolu. » Le reportage de France 2 consacré au colloque insiste sur le silence qui s’installe alors dans l’auditoire, avec un gros plan sur le visage dubitatif de Georges Morin, en charge du Maghreb pour le PS et animateur des débats.

      Le Premier ministre recycle son élément de langage dans un discours sur la politique d’immigration et d’intégration prononcé dans l’hémicycle le 22 mai 1990 : « Nous ne pouvons pas – hélas – soulager toutes les misères de la planète. » Le gouvernement reprendra aussi à son compte la petite phrase rocardienne, à l’image de Lionel Stoléru, secrétaire d’Etat auprès du Premier ministre chargé du Plan, qui, face à Jean-Marie Le Pen sur la Cinq le 5 décembre 1989, déclare : « Le Premier ministre a dit une phrase simple, qui est qu’on ne peut pas héberger toute la misère du monde, ce qui veut dire que les frontières de la France ne sont pas une passoire et que quel que soit notre désir et le désir de beaucoup d’êtres humains de venir nous ne pouvons pas les accueillir tous. Le problème de l’immigration, c’est essentiellement ceux qui sont déjà là… » On retrouve le double axe de la politique que revendique le gouvernement : effort pour intégrer les immigrés qui sont présents et limitation au maximum de toute nouvelle immigration.

      Il faudra attendre le 4 juillet 1993 pour une rectification tardive de Michel Rocard, en réaction à la politique anti-immigration de Charles Pasqua, raconte Thomas Deltombe, auteur d’un essai sur l’islamophobie dans les médias, dans un article du Monde diplomatique : « Laissez-moi lui ajouter son complément, à cette phrase », déclare alors Rocard dans Sept sur sept. « Je maintiens que la France ne peut pas accueillir toute la misère du monde. La part qu’elle en a, elle prend la responsabilité de la traiter le mieux possible. »

      Trois ans plus tard, dans une tribune publiée dans le Monde du 24 août 1996 sous le titre « La part de la France », l’ex-Premier ministre assure que sa formule a été amputée et qu’elle s’accompagnait à l’époque d’un « [la France] doit en prendre fidèlement sa part ». Ce qu’il répète dans les pages de Libé en 2009, affirmant ainsi que sa pensée avait été « séparée de son contexte, tronquée, mutilée » et mise au service d’une idéologie « xénophobe ». Pourtant, cette seconde partie — censée contrebalancer la fermeté de la première — reste introuvable dans les archives, comme le pointait Rue89 en 2009. Une collaboratrice de Michel Rocard avait alors déclaré à la journaliste : « On ne saura jamais ce qu’il a vraiment dit. Lui se souvient l’avoir dit. En tout cas, dans son esprit, c’est ce qu’il voulait dire. Mais il n’y a plus de trace. On a cherché aussi, beaucoup de gens ont cherché mais on n’a rien. »

      Quelques années plus tard, en 2013, le chroniqueur de France Inter Thomas Legrand (désormais à Libération) a reposé la question à Michel Rocard, qui a alors assuré avoir retrouvé le texte d’un discours prononcé en novembre 1989 lors du cinquantenaire de la Cimade (Comité inter-mouvement auprès des évacués) . C’est là, affirme le Premier ministre, que la phrase aurait été prononcée. Voici ce que Rocard dit avoir déclaré : « La France ne peut pas accueillir toute la misère du monde, raison de plus pour qu’elle traite décemment la part qu’elle ne peut pas ne pas prendre. » Sauf que le verbatim de son discours n’a jamais été publié. Le site Vie publique ne donne qu’un résumé très sommaire de son intervention (« mise en cause du détournement du droit d’asile et importance de la rigueur dans l’admission des réfugiés »).

      Mais que ces mots aient été, ou pas, prononcés, devant la Cimade, ne change rien au fait qu’entre 1989 et 1990, la phrase a bien été assénée par Michel Rocard sans cette seconde partie, comme une justification de sa fermeté vis-à-vis de l’immigration. Et non comme un encouragement à l’accueil des immigrés.

      https://www.liberation.fr/checknews/on-ne-peut-pas-accueillir-toute-la-misere-du-monde-la-vraie-histoire-de-l
      #Emmanuel_Macron

  • Existe-t-il des #terrains_hostiles aux #chercheuses ?

    Les chercheuses font face à de véritables problématiques de terrain dans le cadre de leurs recherches. Du monde militaire en passant par le monde politique, quelles stratégies doivent-elles adopter pour mener au mieux leurs études en dépit des #risques encourus sur le terrain ?

    Avec

    – Marielle Debos Chercheuse à l’Institut des Sciences sociales du Politique et maître de conférences en sciences politiques à Paris-Nanterre
    – Ioulia Shukan Spécialiste de l’Ukraine, maîtresse de conférences en études slaves à l’Université Paris Nanterre et chercheuse à l’Institut des Sciences sociales du Politique et associée au Centre d’études des mondes russe, caucasien et centre-européen
    - Camille Abescat Doctorante en sciences-politique au sein du Centre de recherches internationale de Sciences Po

    C’est un post sur un réseau social qui nous a alerté la semaine dernière sur la publication dans la revue « Critique internationale » d’un vade-mecum intitulé « Genre, sécurité et éthique. Vade-mecum pour l’enquête de terrain. » (https://www.cairn.info/revue-critique-internationale-2023-3-page-59.htm) Son autrice, #Marielle_Debos, spécialiste de politique en Afrique, l’avait tout d’abord destiné à ses étudiantes. Elle s’interroge sur les risques que prennent les chercheuses sur le terrain et la #responsabilité que ces dernières ont vis-à-vis de leurs interviewées.

    Notre deuxième invitée, Camille Abescat, rend sa thèse sur les députés jordaniens cette semaine. Enfin, Ioulia Shukan, spécialiste de l’Ukraine et la Biélorussie, évoquera le changement de nature de son terrain devenu lieu de guerre, qui, comme toutes les chercheuses spécialisées de cette région, a été énormément sollicitée par les médias tout en ayant de plus en plus de difficultés à enquêter pour renouveler ses approches.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-temps-du-debat/existe-t-il-des-terrains-hostiles-aux-chercheuses-6589647

    #podcast #audio #terrain_de_recherche #recherche_de_terrain #terrain #recherche #femmes

    ping @_kg_

    • #Genre, #sécurité et #éthique. Vade-mecum pour l’enquête de terrain

      Les questions concrètes et matérielles que l’on se pose sur le terrain ne sont pas détachées des questions théoriques, méthodologiques et éthiques. L’article est composé de deux parties : la première est une introduction sur le genre, la sécurité et l’éthique dans les relations d’enquête, la seconde est un vade-mecum qui donne des conseils pour se protéger et protéger les enquêté·es, en mettant l’accent sur les #violences_sexistes et sexuelles. Je défends l’idée que les chercheuses peuvent réinventer une manière de penser et de faire du terrain, entre injonctions paternalistes à la #prudence et déni des difficultés rencontrées. La sécurité, en particulier celle des femmes et des #minorités, sur le terrain et à l’université suppose aussi une réflexion sur les effets de la #précarité et la persistance de #normes (sexisme, #fétichisation des terrains à risques, idéalisation de l’#immersion_ethnographique) qui peuvent les mettre en danger.

      https://www.cairn.info/revue-critique-internationale-2023-3-page-59.htm
      #vademecum #vade-mecum #violences_sexuelles #VSS #paternalisme

    • #BADASSES : Blog d’Auto-Défense contre les Agressions Sexistes et Sexuelles dans l’Enquête en Sciences sociales

      Manifeste

      « Les anthropologues ne se font pas violer ou harceler, les femmes si » (1)
      Moreno, 1995

      C’est ce qu’écrivait Eva Moreno dans un article témoignant du viol qu’elle a subi lors d’une enquête de terrain vingt ans auparavant. Ne nous méprenons pas : la date n’explique rien. Aujourd’hui encore, les violences sexistes et sexuelles s’immiscent dans la relation d’enquête. Sans grande surprise, la fonction de chercheureuse ne nous protège pas. C’est parce que femme, ou minorité de genre, qu’on est harcelé·e, agressé·e, violé·e ; et en tant que chercheureuse et sur notre espace de travail que cela arrive.

      Loin d’être anecdotiques, les violences sexistes et sexuelles dans l’enquête, tout comme dans l’ESR, sont pourtant invisibilisées : à l’Université, c’est le silence qui règne. Alors que les théories féministes et les études de genre ont largement travaillé sur les violences sexistes et sexuelles, que la sociologie regorge d’outils pour analyser les relations de domination, que la réflexivité dans l’enquête s’est imposée dans les sciences sociales, on ne peut que constater l’absence de la prise en compte de ces violences au sein de nos formations. À l’exception de quelques initiatives personnelles, souvent sous forme de séminaires ou de conseils informels aux jeunes chercheureuses, rares sont les TD de méthodologie où l’on discute de ces problématiques, des ressources dont les étudiant·e·s pourraient se saisir pour mieux penser les méthodes d’enquête, se protéger sur le terrain, et acquérir les outils permettant d’analyser et d’objectiver ces violences.

      Ce constat est le résultat d’un manque de considération certain quant au genre de l’enquête. L’enseignement méthodologique se fait le plus souvent à partir de la condition masculine, le devoir de réflexivité s’imposant alors aux seules femmes et minorités de genre – ce qu’illustre d’ailleurs l’importance qui lui est accordée dans les études de genre et de la sexualité. Telle qu’enseignée aujourd’hui, la démarche de l’enquête tend à valoriser les prises de risques. Au nom d’un imaginaire ancré du·de la chercheureuse aventurier·e, du dépassement de soi et de l’injonction à un terrain spectaculaire, les enquêteurices peuvent être poussé·e·s à se mettre en danger, davantage que dans leur vie quotidienne. Les chercheureuses sont encouragé·e·s à privilégier une forme d’intimité avec leurs enquêté·e·s, ainsi qu’à multiplier les relations et les espaces d’observation informel·le·s. En somme, à “tout prendre” pour collecter de “meilleures” données et ce, sans nécessairement avoir la formation indispensable aux pratiques ethnographiques. Fréquemment, la peur de “gâcher son terrain” ou de “se fermer des portes” redouble les risques encourus. Peut-être devrions-nous rappeler que l’abnégation de soi ne fait pas un bon terrain. Il est impératif de déconstruire ces mythes, qui comme toujours exposent davantage les femmes et minorités de genre. Qui plus est, la précarité systémique dans l’ESR – dont les jeunes chercheureuses sont les premières victimes – accentue voire favorise les prises de risques (conditions d’hébergement, de transport…).

      En tant qu’institution, l’Université se doit de visibiliser ces sujets et d’en faire de véritables enjeux. Il est pour cela nécessaire de (re)donner des moyens aux universités, la baisse drastique des financements et des recrutements empêchant la mise en place de véritables formations méthodologiques – qui nous semblent pourtant être un instrument de lutte contre les violences sexistes et sexuelles, mais aussi plus généralement contre toute forme de violence dans l’enquête. Au-delà des moyens financiers, les universitaires se doivent aussi de prendre à cœur et à corps ces enjeux pour mettre fin au tabou qui entoure le sujet des violences sexistes et sexistes dans l’enquête. Mais leur seule prise en charge par les institutions en retirerait la charge politique et épistémologique. Il ne s’agit pas non plus d’être dépossédé·e·s d’espaces autonomes, d’auto-défense, pour se former, échanger, construire ensemble nos savoirs et créer des solidarités dans un champ académique qui, toujours plus compétitif et précarisé, freinent la mise en place d’initiatives collectives. En complément aux espaces déjà existants dans certaines universités ou collectifs de recherche, ce blog se veut donc être un espace dématérialisé, pour créer du lien, mutualiser les ressources, faire circuler discussions et outils, les rendre accessibles au plus grand nombre et en conserver les traces. Si l’approche par le genre est au cœur de ce blog, celui-ci a aussi vocation à visibiliser les violences racistes, validistes, classistes et, dans une perspective intersectionnelle, voir comment elles s’articulent avec les violences sexistes et sexuelles.

      (1) Si la citation de l’autrice se limite aux femmes, notons que notre réflexion et notre travail incluent de fait les minorités de genre.

      https://badasses.hypotheses.org

  • En Ethiopie, l’exode des médecins du Tigré, épuisés par deux ans de guerre civile
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/09/14/en-ethiopie-l-exode-des-medecins-du-tigre-epuises-par-deux-ans-de-guerre-civ

    En Ethiopie, l’exode des médecins du Tigré, épuisés par deux ans de guerre civile
    Après avoir travaillé sans relâche et sans salaire pendant le conflit, de nombreux soignants abandonnent les hôpitaux de la région pour exercer dans des cliniques à l’étranger ou rejoindre des ONG.
    Par Noé Hochet-Bodin(Addis-Abeba, envoyé spécial)
    A l’entrée de l’hôpital Ayder de Makalé, le plus grand du Tigré, les listes accrochées sur un tableau en liège ne sont pas des annonces d’embauche. Les hôpitaux de cette région du nord de l’Ethiopie auraient pourtant bien besoin de renfort en ces temps de reconstruction d’après-guerre. Hélas, il s’agit au contraire des noms de la centaine de médecins qui ont démissionné, abandonné l’hôpital et, le plus souvent, quitté la province.
    Après deux années de guerre civile (2020-2022) marquées par le blocus de la région, les pénuries de médicaments, l’occupation et la destruction de l’ensemble des structures de santé, le Tigré en paix fait face à une nouvelle menace : l’exode de ses soignants. La faculté de médecine de l’hôpital Ayder indique que 67 des 190 chirurgiens spécialisés de la région ont profité de la réouverture des frontières, après les accords de paix de novembre 2022, pour fuir un Tigré en ruines. Soit plus d’un tiers. En tout, 221 médecins ont quitté leur poste.« Le personnel de l’hôpital Ayder a travaillé sans relâche pendant deux ans sans être payé. Il a fait preuve d’un dévouement et d’une compassion incroyables, mais il est maintenant à bout. Tous sont épuisés, démoralisés et commencent à quitter l’hôpital », constate le directeur de l’établissement, Kibrom Gebreselassie, en guise d’appel à l’aide.
    Après le temps des dévastations, le Tigré se relève à peine. Pendant la guerre, l’hôpital Ayder fonctionnait « à 15 % de ses capacités », selon Kibrom Gebreselassie. Plus généralement, 70 % des structures de santé ont été « pillées » à travers la région, d’après Médecins sans frontières (MSF). Si, depuis les accords de paix, une partie du budget, dont les salaires, est de nouveau versée par le gouvernement fédéral, les médecins n’ont pas cessé de fuir.« C’est une tendance que nous avons du mal à contrôler », reconnaît Amanuel Haile, directeur du bureau régional de santé, qui date à janvier le début de l’exode, suite à la reprise des liaisons aériennes à Makalé, la capitale du Tigré : « Certains de nos meilleurs spécialistes partent pour travailler dans des cliniques privées en Europe et aux Etats-Unis ou dans des ONG, notamment au Somaliland, au Rwanda et au Soudan du Sud. »
    Les médecins choisissent l’exil avant tout pour des considérations financières, afin de régler leurs dettes après dix-huit mois sans revenus ni compensations. Kahsay Hailu (à sa demande, son identité a été changée) fut chirurgien pendant plus de douze ans à Ayder. Formé à Makalé, il doit tout à cet hôpital. Il a pourtant fait le choix de fuir au Canada, en mars, accompagné de sa femme et de ses trois enfants. « J’ai une famille à charge, je ne peux pas rester sans salaire ou presque dans un établissement qui ne fonctionne plus », justifie-t-il. En Ethiopie, un chirurgien du secteur public gagne en moyenne 230 euros par mois, mais jusqu’à 20 fois plus s’il travaille pour des agences onusiennes ou des ONG.
    Certes, il y a la culpabilité de laisser une province au bord du précipice, confrontée à une recrudescence de cas de violences sexuelles, de cancers et de VIH. Mais ces médecins déserteurs font aussi face à un constat d’impuissance. « J’ai le sentiment de m’être sacrifié deux ans pour soigner les miens alors que nous n’avions rien, pas de salaire, pas d’électricité, même pas de gants en plastique, ni de nourriture pour les patients », précise Kahsay Hailu.« Je ne les juge absolument pas », rassure Amanuel Haile, qui prétend que tout sera fait pour accueillir de nouveau les médecins en exil qui souhaitent retrouver leur poste. En attendant, la qualité des soins en pâtit. L’unique spécialiste de chirurgie abdominale étant parti, il faut se rendre à Addis-Abeba pour recevoir ce type de soins. De même pour la chirurgie vasculaire. « On fait du bricolage, ironise le chirurgien Fasika Amdeselassie. On est sous l’eau, ma liste d’attente a triplé depuis le départ de mes collègues. »
    Ce cadre de l’hôpital Ayder sait que les troubles de stress post-traumatique constituent une autre raison du départ des médecins tigréens. Pour les traiter, il a mis en place une petite structure, baptisée « Haqi », qui propose un soutien psychologique à l’attention des professionnels de santé qui se trouvaient en première ligne pendant la guerre. « Les dégâts psychologiques sont colossaux, la pression intense, et nous n’avons quasiment personne pour en parler, car le Tigré ne compte que trois psychiatres pour 6 millions d’habitants », dit-il.Si les acteurs humanitaires ont fait leur retour au Tigré pour soutenir un système de santé chancelant, il y a peu de chances que les médecins exilés reviennent rapidement. « Le budget alloué par le ministère de la santé a diminué d’un tiers par rapport au niveau d’avant-guerre », confie, désabusé, un médecin qui souhaite garder l’anonymat. De plus, la lente démobilisation des forces armées du Tigré et l’état d’urgence dans la région voisine de l’Amhara font craindre la résurgence des affrontements. « Les perspectives politiques sont trop sombres pour espérer le retour de nos collègues, assure Fasika Amdeselassie. Si la paix n’est pas entérinée prochainement, nous n’avons aucune chance de voir nos médecins rentrer. »
    Noé Hochet-Bodin(Addis-Abeba, envoyé spécial)

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