• Lumière sur les #financements français et européens en #Tunisie

    Alors que la Tunisie s’enfonce dans une violente #répression des personnes exilées et de toute forme d’opposition, le CCFD-Terre Solidaire publie un #rapport qui met en lumière l’augmentation des financements octroyés par l’Union européenne et les États européens à ce pays pour la #sécurisation de ses #frontières. Cette situation interroge la #responsabilité de l’#UE et de ses pays membres, dont la France, dans le recul des droits humains.

    La Tunisie s’enfonce dans l’#autoritarisme

    Au cours des deux dernières années, la Tunisie sous la présidence de #Kaïs_Saïed s’engouffre dans l’autoritarisme. En février 2023, le président tunisien déclare qu’il existe un “un plan criminel pour changer la composition démographique de la Tunisie“, en accusant des “hordes de migrants clandestins“ d’être responsables “de violences, de crimes et d’actes inacceptables“.

    Depuis cette rhétorique anti-migrants, les #violences à l’encontre des personnes exilées, principalement d’origine subsaharienne, se sont exacerbées et généralisées dans le pays. De nombreuses associations alertent sur une montée croissante des #détentions_arbitraires et des #déportations_collectives vers les zones frontalières désertiques de l’#Algérie et de la #Libye.

    https://ccfd-terresolidaire.org/lumiere-sur-les-financements-francais-et-europeens-en-tunisie
    #EU #Union_européenne #externalisation_des_frontières #migrations #réfugiés #désert #abandon

    ping @_kg_

  • “Sotto l’acqua”. Le storie dimenticate dei borghi alpini sommersi in nome del “progresso”

    I grandi invasi per la produzione di energia idroelettrica hanno segnato nei primi decenni del Novecento l’inizio della colonizzazione dei territori montani. #Fabio_Balocco, giornalista e scrittore di tematiche ambientali, ne ha raccolto le vicende in un libro. Un lavoro prezioso anche per comprendere l’attuale dibattito su nuove dighe e bacini a favore di agricoltura intensiva e innevamento artificiale

    Un campanile solitario emerge dalle acque del Lago di Rèsia, in Val Venosta, un invaso realizzato per produrre energia idroelettrica. Quella che per i turisti di oggi è una curiosa attrazione, è in realtà ciò che rimane di una borgata alpina sommersa in nome del “progresso”. Quella del campanile che sorge dalle acque è un’immagine iconica che in tanti conoscono. Ma non si tratta di un caso isolato: molti altri abitati alpini furono sommersi nello scorso secolo, sacrificati sullo stesso altare. Soprattutto nel Piemonte occidentale, dove subirono la sorte le borgate di Osiglia, Pontechianale, Ceresole Reale, Valgrisenche, e un intero Comune come Agàro, nell’Ossola. A raccontare queste storie pressoché dimenticate è il giornalista e scrittore Fabio Balocco nel suo recente saggio “Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi” pubblicato da LAReditore.

    Balocco, perché ha scelto di raccontare queste storie?
    FB Tutto è iniziato con un’inchiesta per la rivista Alp (mensile specializzato in montagna e alpinismo, chiuso nel 2013, ndr) che feci a metà anni Novanta, incentrata proprio su queste storie dei borghi sommersi per produrre energia. Un fenomeno che caratterizzò soprattutto gli anni Venti e Trenta del Novecento per alimentare le industrie della pianura. Sono sempre stato attratto dalle storie “minime”, quelle dei perdenti, in questo caso le popolazioni alpine sacrificate appunto sull’altare dello sviluppo. È quella che io chiamo “la storia con la esse minuscola”. La nascita del libro è dovuta sia al fatto che siamo sulla soglia del secolo da quando iniziarono i primi lavori e sia dal ritorno nel dibattito politico del tema di nuovi invasi. Infine, penso sia necessario parlarne per ricordare che nessuna attività umana è esente da costi ambientali e talvolta anche sociali, come in questi casi che ho trattato.

    Nel libro afferma che l’idroelettrico ha portato ai primi conflitti nelle terre alte, tradendo la popolazione alpina. In che modo è successo?
    FB I grandi invasi per produzione di energia idroelettrica hanno segnato l’inizio della colonizzazione dei territori montani, che fino ad allora non erano stati intaccati dal punto di vista ambientale e sociale da parte del capitale della pianura. Queste opere costituirono l’inizio della colonizzazione di quelle che oggi vengono anche definite “terre alte”, colonizzazione che è proseguita soprattutto con gli impianti sciistici e le seconde case. Vale poi la pensa di sottolineare che almeno due invasi, quello di Ceresole Reale e quello di Beauregard, in Valgrisenche, comportarono la sommersione di due dei più suggestivi paesaggi delle Alpi occidentali.

    Che ruolo hanno avuto le dighe nello spopolamento delle terre alpine?
    FB È bene ricordare che nell’arco alpino occidentale lo spopolamento era già in atto agli inizi del Novecento in quanto spesso per gli abitanti delle vallate alpine era più facile trovare lavoro oltreconfine. Un caso esemplare è quello della migrazione verso la Francia che caratterizzò la Val Varaita, dove fu realizzato l’invaso di Pontechianale. Le dighe non contribuirono in modo diretto allo spopolamento ma causarono l’allontanamento di centinaia di persone dalle loro case che venivano sommerse dalle acque, e molti di questi espropriati non ricevettero neppure un compenso adeguato a comprare un nuovo alloggio, oppure persero tutto il denaro a causa dell’inflazione, come accadde a Osiglia, a seguito dello scoppio Seconda guerra mondiale. Queste popolazioni subirono passivamente le imposizioni, senza mettere in atto delle vere e proprie lotte anche se sapevano che avrebbero subito perdite enormi. Ci furono solo alcuni casi isolati di abitanti che furono portati via a forza. Questo a differenza di quanto avvenuto in Francia, a Tignes, negli anni Quaranta, dove dovette intervenire l’esercito per sgomberare la popolazione. Da noi il sentimento comune fu di rassegnazione.

    Un’altra caratteristica di queste storie è lo scarso preavviso.
    FB Tutto l’iter di approvazione di queste opere avvenne sotto traccia e gli abitanti lo vennero a sapere in modo indiretto, quasi di straforo. Semplicemente si accorgevano della presenza di “stranieri”, spesso tecnici venuti a effettuare lavori di prospezione, e solo con un passaparola successivo venivano a conoscenza dell’imminente costruzione della diga. Anche il tempo a loro lasciato per abbandonare le abitazioni fu di solito molto breve. Le imprese della pianura stavano realizzando degli interessi superiori e non erano interessate a informare adeguatamente le popolazioni coinvolte. Le opere furono realizzate da grandi imprese specializzate che si portavano dietro il loro personale. Si trattava di lavori spesso molto specialistici e solo per le mansioni di bassa manovalanza venne impegnata la popolazione locale. D’altra parte, questo incontro tra il personale delle imprese e i locali portò a conseguenze di carattere sociale in quanto i lavori durarono diversi anni e questa intrusione portò anche alla nascita di nuovi nuclei familiari.

    Differente è il caso di Badalucco, dove negli anni Sessanta gli abitanti riuscirono a opporsi alla costruzione della diga. In che modo?
    FB Badalucco è sempre un Comune alpino, sito in Valle Argentina, in provincia di Imperia e anche lì si voleva realizzare un grande invaso all’inizio degli anni Sessanta. Ma qui le cose andarono in maniera diversa, sicuramente anche perché nel 1959 c’era stata una grave tragedia in Francia quando la diga del Malpasset crollò provocando la morte di quasi 500 persone. A Badalucco ci fu quindi una vera e propria sollevazione popolare guidata dallo stesso sindaco del Comune, sollevazione che, anche attraverso scontri violenti, portò alla rinuncia da parte dell’impresa. L’Enel ha tentato di recuperare il progetto (seppure in forma ridotta) nei decenni successivi trovando però sempre a una forte opposizione locale, che dura tuttora.

    Il governo promette di realizzare nuove dighe e invasi. È una decisione sensata? Che effetti può avere sui territori montani?
    FB A parte i mini bacini per la produzione di neve artificiale nelle stazioni sciistiche, oggi vi sono due grandi filoni distinti: uno è il “vecchio” progetto “Mille dighe” voluto da Eni, Enel e Coldiretti con il supporto di Cassa depositi e prestiti, che consiste nella realizzazione di un gran numero di piccoli invasi a sostegno soprattutto dell’agricoltura, ma anche per la fornitura di acqua potabile. Poi vi sono invece i progetti di nuovi grandi sbarramenti, come quello previsto lungo il torrente Vanoi, tra Veneto e Trentino, o quelli di Combanera, in Val di Lanzo, e di Ingria, in Val Soana, in Piemonte. Come dicevo, oggi l’esigenza primaria non è tanto la produzione di elettricità quanto soprattutto l’irrigazione e, in minor misura, l’idropotabile. Si vogliono realizzare queste opere senza però affrontare i problemi delle perdite degli acquedotti (che spesso sono dei colabrodo) né il nostro modello di agricoltura. Ad esempio, la maggior parte dell’acqua utilizzata per i campi finisce in coltivazioni, come il mais, per produrre mangimi destinati agli allevamenti intensivi. Questo senza considerare gli impatti ambientali e territoriali che le nuove opere causerebbero. In buona sostanza, bisognerebbe ripensare il nostro modello di sviluppo prima di tornare a colonizzare nuovamente le terre alte.

    https://altreconomia.it/sotto-lacqua-le-storie-dimenticate-dei-borghi-alpini-sommersi-in-nome-d

    #montagne #Alpes #disparitions #progrès #villages #barrages #barrages_hydro-électriques #énergie_hydro-électrique #énergie #colonisation #industrialisation #histoire #histoires #disparition #terre_alte #Badalucco #Osiglia #Pontechianale #Ceresole_Reale #Valgrisenche #Agàro #Beauregard #Ceresole_Reale #Mille_dighe #Vanoi #Combanera #Ingria

    • Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi

      Circa un secolo fa iniziò, nel nostro paese, il fenomeno dell’industrializzazione. Ma questo aveva bisogno della forza trainante dell’energia elettrica. Si pensò allora al potenziale rappresentato dagli innumerevoli corsi d’acqua che innervavano le valli alpine. Ed ecco la realizzazione di grandi bacini di accumulo per produrre quella che oggi chiamiamo energia pulita o rinnovabile. Ma qualsiasi azione dell’uomo sull’ambiente non è a costo zero e, nel caso dei grandi invasi idroelettrici, il costo fu anche e soprattutto rappresentato dal sacrificio di intere borgate o comuni che venivano sommersi dalle acque. Quest’opera racconta, tramite testimonianze, ricordi e fotografie, com’erano quei luoghi, seppur limitandosi all’arco alpino occidentale. Prima che se ne perda per sempre la memoria.

      https://www.ibs.it/sotto-acqua-storie-di-invasi-libro-fabio-balocco/e/9791255450597

      #livre

  • « Polluants éternels » : explorez la carte d’Europe de la contamination par les PFAS
    https://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2023/02/23/polluants-eternels-explorez-la-carte-d-europe-de-la-contamination-par-les-pf

    Notre carte montre les usines de production de PFAS, certains sites où ils sont utilisés, ainsi que les sites où une contamination a été détectée et ceux où elle est présumée.

    • Révélations sur la contamination massive de l’Europe par les #PFAS, ces polluants éternels

      Au moins 2 100 clusters à des niveaux de contamination jugés dangereux
      Nous avons calculé des clusters pour rassembler les sites de prélèvements les plus rapprochés. Ils sont ici répartis selon la concentration maximale de PFAS mesurée dans chaque site et chaque cluster.
      Les « hotspots » sont des sites et des clusters dont la concentration mesurée dépasse les 100 ng/kg, c’est-à- dire des niveaux jugés dangereux pour la santé par les experts que nous avons interrogés.

      Certains se situent dans le voisinage des vingt usines de production de PFAS que nous sommes parvenus à localiser – la liste et la cartographie de ces sites industriels n’avaient jamais été établies. Notre enquête dévoile également les localisations de près de 21 500 sites présumés contaminés en raison d’une activité industrielle exercée actuellement ou par le passé à travers toute l’Europe ainsi que plus de 230 usines identifiées comme utilisatrices de PFAS.

      Au fil des connaissances collectées, les effets, même à faibles doses, d’une exposition aux PFAS s’allongent comme une visite médicale de cauchemar qui n’épargne aucune zone du corps. Diminution du poids des bébés à la naissance, de la fertilité ou de la réponse immunitaire aux vaccins chez les enfants ; augmentation des risques de cancers du sein, du rein ou des testicules ; maladies de la thyroïde ; colite ulcéreuse ; hausse du taux de cholestérol et de la tension artérielle, et prééclampsie chez les femmes enceintes ; risques cardio-vasculaires. L’équipe de Mme Goldenman estime que les PFAS pèsent chaque année entre 52 et 84 milliards d’euros sur les systèmes de santé européens.

      #plastique #pollution #écologie #santé

      https://justpaste.it/cehhw

    • « Alors, est-ce l’industrie chimique qui est responsable ou bien l’Etat qui est trop faible et n’exige pas plus de l’industrie chimique ? », questionne M. Cousins. Personne à ce jour n’a jamais été mis en prison pour avoir commis cette contamination historique, éternelle sans doute. Mais peut- on vraiment la qualifier de crime ?

      Professeure de droit à l’université Erasmus de Rotterdam (Pays-Bas), Lieselot Bisschop s’intéresse précisément au concept de « crime industriel facilité par l’Etat » (« state-facilitated corporate crime ») « pour appréhender les dommages environnementaux et humains causés par les firmes » dans le contexte de la pollution aux PFAS. Un terme qui se rapporte « aux situations où les institutions gouvernementales ne réglementent pas des activités commerciales illégales ou socialement préjudiciables, ou bien créent un environnement juridique qui permet à ces préjudices de se produire et de se poursuivre », explique-t-elle. Des activités souvent « terribles mais légales » (« awful but lawful »).

      Si la chercheuse n’a pas encore livré son verdict académique, Martin Scheringer s’empare volontiers de la notion. « Pendant longtemps, les autorités n’ont pas vu tout cela comme un crime, mais comme un facteur de développement et une source de richesse dans leurs pays, dit-il. Cela a conduit tous ces acteurs étatiques à commettre d’énormes erreurs au cours des cinquante ou soixante dernières années, et ces erreurs se sont transformées en crimes. »

  • Gaza and the European border regime: Connecting the struggles

    As Israel’s genocidal assault[1] on the Gaza Strip shows no signs of relenting, the situation increasingly lays bare broader inequalities, hypocrisies, and tendencies in global politics. This moment compels those of us working against European borders and border externalization to think about the many connections and parallels between the genocidal Israeli occupation and the global border regime. Israeli apartheid and the global border regime share an assumption that segments of humanity can be permanently confined, contained, and warehoused, surrounded by affluence that springs from their dispossession.

    Israel has long been a part of the European border regime, and its technologies of surveillance and control inform bordering practices elsewhere. The state of Israel inflicts racial violence and hierarchies upon the Palestinian people akin to the violence that migrants experience in the Sahara, the Mediterranean, and on Europe’s eastern maritime and land borders. In the Occupied Territories, a regime of legal apartheid severely restricts human mobility and access to social resources enacting a hierarchy of racial exclusion and privilege. Scholars who think of border regimes as global apartheid describe this in similar terms. In Gaza, meanwhile, the same logic of racial supremacy has degenerated into outright genocide against those deemed racially inferior. Whether this becomes a blueprint for how “unwanted” populations are treated in the future is a question that concerns all of us.

    Both border regimes and the war on Gaza involve extensive Western support to authoritarian governments and the nourishment of fascist tendencies. In the face of Israel’s policies of deliberate starvation, the systematic targeting of civilians, and the destruction of vital infrastructure, Western allies continue to fund and arm these war crimes. The most extreme elements of Netanyahu’s war cabinet are among the main beneficiaries of this Western policy approach. In a similar vein, Western backing and funding to non-democratic governments has contributed to the gross human rights violations carried out by European externalization partners like Libya, Tunisia, Egypt and Sudan. In each case, the values that “the West” claims to uphold are eroded, exposing an authoritarian, fascist, and genocidal underside.

    Indeed, when placed in a historical context, events in Gaza today are the latest destructive episode in a continuous history of enclosure, expulsion, dispossession, displacement, and ethnic cleansing going back 76 years in the region. Palestine, moreover, is not an exception. Colonial conquest and genocide are constitutive of modernity. This connection between nation-statehood, genocide and extreme political violence can be seen in Tigray/Amhara (Ethiopia), in Darfur (Sudan), the Democratic Republic of Congo and elsewhere. The situation in the West Bank and Gaza is not a departure from this colonial genealogy of the nation-state. On the contrary, it is a direct consequence of this genocidal history as it unfolded in the 20th century, including global population displacements after the Second World War, the persecution and expulsion of Jews from Europe (the flight from the Holocaust), and the export of European nationalism and racial ideologies.

    At the same time, Gaza is a 21st-century refugee camp, where the wretched of the earth are warehoused in increasing numbers. Combining the governmental form of the prison with that of the concentration camp, the Gaza siege aspires for total control and surveillance of its incarcerated population, which it frames as a threat deserving its fate. In a global context of climate breakdown and economic crisis, this could well become a global model of refugee containment. Yet to paraphrase Yasmeen Daher, why should Palestinians and the formerly colonized be the perpetual refugees in our world?
    Unprecedented destruction

    The scale of destruction and atrocities committed after the Hamas attack on 7 October, 2023 by the Israeli Defence Forces in Gaza is in many ways unprecedented. Using publicly available data, Oxfam calculated that the number of average deaths per day in Gaza (250) is higher than in any recent major armed conflict including Syria (96.5 deaths per day), Sudan (51.6), Iraq (50.8), Ukraine (43.9) Afghanistan (23.8) and Yemen (15.8).2 More UN workers have been killed since October in Gaza than in any other conflict since the founding of the UN. According to the Committee to Protect Journalists, more journalists have been killed in the first 10 weeks of the Israel-Gaza war than have ever been killed in a single country over an entire year.

    By December 30, 2023, almost half of Gaza’s buildings had been damaged or destroyed, a figure that also accounts for almost 70 percent of its 439,000 homes. Satellite images show the widespread and targeted destruction of the entire Gaza Strip through Israel’s bombing campaign, including farmland. In December 2023, more than 8,000 Palestinians were being held in Israeli jails amid an intensified wave of arrests and detentions in Gaza and the West Bank since the 7 October attacks by Hamas, according to human rights groups. Even before October 7, 2023, Israel was holding 5,200 Palestinian political prisoners.

    This is a war not just against Hamas but against the “stateless” population in Gaza and, by extension, against the population of the other occupied Palestinian territories. The war waged by Netanyahu and his right-wing extremist coalition and war cabinet is also further militarizing Israeli society and turning the entire region into a war zone, with an imminent risk of potential for global escalation.

    Early and repeated warnings of an imminent humanitarian catastrophe and genocide went unanswered. In February, the United Nations World Food Programme warned of an impending famine. With the threat of defunding UNRWA[2], the largest humanitarian agency active in Gaza and on which 2 million people are depending for shelter and basic supplies, the situation has further deteriorated. A CNN report shows that Israel’s security forces are confiscating items such as water filtration systems, dates, and sleeping bags, thus violating the requirements by the International Court of Justice’ to allow adequate aid deliveries. On March 28, 2024, the International Criminal Court ordered the Israeli government to allow unimpeded access to food aid in Gaza, where sections of the population are facing imminent starvation. While states and non-governmental organizations have made efforts to provide humanitarian aid via planes and ships, the only solution is an immediate ceasefire.

    In sum, Israel’s willful withholding of essential humanitarian aid is responsible for famine in Gaza, and the situation is set to deteriorate further with an impending military campaign in Rafah.[3] At the same time, decisive calls for an immediate ceasefire remain marginalized and shunned by Western political leaders and Western mainstream media, and their proponents are regularly attacked as Hamas supporters or anti-Semites.[4] Without concrete actions to pressure the Netanyahu government, such as stopping arms exports or imposing sanctions, recent calls for a ceasefire by some Western governments are bound to remain mere lip service.
    Repression of opposition and anti-migrant racism

    The intensification of war, occupation and expulsion of Palestinians has been accompanied by a crackdown on democratic opposition and the weaponization of anti-Semitism. Critical voices, journalism and peaceful protests are being repressed in Israel, the Palestinian territories and Western societies. Civil liberties such as freedom of speech, of the press, of assembly as well academic freedom have also been restricted in Western Europe. This is exacerbated by a sustained news blockade from Gaza, where the killing of at least 107 journalists has prompted investigations by the International Criminal Court.

    The governing powers in Germany frame criticism of the Israeli right-wing extremist government or the war as „Israel-oriented anti-Semitism“.This concept, essential to repressing all opposition to Israel’s genocidal actions and German complicity, relies on the German government’s restrictive interpretation[5] of the International Holocaust Remembrance Alliance’s (IHRA) „working definition of antisemitism“. The two-sentence-long IHRA definition, embraced by many governments, media, cultural and educational institutions, does not itself equate criticism of Israel with anti-Semitism. However, the list of 11 examples, often considered as part of the definition, strongly suggests this equation. This interpretation and the definition itself have been criticized and challenged by many. Jewish and Israeli historians and scholars have, for instance, argued that it undermines the fight against antisemitism.[6] As the Diaspora Alliance notes: „The Israeli government and its allies are promoting the use of the IHRA definition in order to curtail protected free speech… [and] to reframe legitimate criticism of well-documented Israeli state violence against Palestinians as anti-Jewish bigotry …to silence critics of the State of Israel and of Zionism.“

    European governments and public institutions have issued bans on demonstrations, excluded critical voices from public forums and universities and defunded cultural spaces, particularly harshly in Germany. This amounts to a systematic violation of the constitutional principles of freedom of expression and opinion and therefore erodes the freedoms of all. The shutting down of the Palestine Congress in Berlin in April exemplifies this regression. Ultimately, this strategy will only reinforce societal division and polarization – instead of combating anti-Semitism or racism. In fact, the equation of criticism of Israel with anti-Semitism has been used to fuel racism against Arabs and Muslims.

    This trend of anti-Arab and anti-Muslim racism provides a fertile ground for the ongoing deportation campaigns, European asylum reform and intensification of border externalization. The German Chancellor Olaf Scholz explicitly made the link between 7 October, deportations and suspicion of Arabs in his November 2023 announcement of “deportations on a large scale” The major opposition party CDU (Christian Democratic Union) at the same time called for “physical violence” against “irregular migrants” at Europe’s external borders. This institutionalization of direct violence is also evident in the adopted reform of the Common European Asylum System (CEAS), which envisions the massive incarceration of newly arriving migrants at the EU’s external borders. And while the German right-wing party AfD is openly discussing the “re-migration” of persons with “migration background” – a plan to revoke citizenship and deport millions – members of the Netanjahu cabinet are doing the same for the Palestinian population in Gaza.

    If the current conjuncture is one of escalating border violence, apartheid, global militarization, and expanding far-right forces, it is vital to connect the struggles against these forces.
    Connecting struggles: Against borders and apartheid?

    To summarize, there are at least four elements connecting Israeli apartheid and the global border regime. Apartheid and global border regimes are both productive of racialized difference and segregation; they both feed authoritarian and fascist tendencies; they are bound up in the history of colonial genocide and nation-state building, and they provide respectively a framework for containing the displaced and dispossessed in a 21st century of climate and economic crisis. At present, Gaza is the site of unprecedented destruction and violence. Precedents are also being set in “the West” in that constitutionally protected freedoms are being withdrawn to repress those protesting this violence and destruction. All of this feeds a growing overlap between racist sentiment, far-right exclusionary nationalism, and liberal technocratic border governance projects.

    In such a conjuncture, it is neither feasible nor desirable to separate the struggle for freedom in Palestine from the struggles against racism and border regimes “at home” in Europe. Many groups and individuals already participate in several of these struggles. Our infinite respect and solidarity goes to those already doing this work. Yet matters have now become entangled in a fashion that heightens the urgency to deepen these connections in our movements. As an activist research collective documenting and critiquing European border externalisation, we wish to provide resources and perspectives towards this end.

    https://migration-control.info/en/blog/gaza-european-border-regime

    #Gaza #externalisation #Israël #externalisation_des_frontières #réfugiés #destruction #résistance #luttes

  • Carte à la une. Déconstruire un récit impérial : le mythe Sykes-Picot — Géoconfluences
    https://geoconfluences.ens-lyon.fr/informations-scientifiques/a-la-une/carte-a-la-une/sykes-picot

    Très bon article

    La carte dite de Sykes-Picot (1916) est souvent présentée comme l’illustration la plus flagrante de l’impérialisme européen au Moyen-Orient et de la manière dont les frontières y ont été tracées arbitrairement. En replaçant cette carte dans son contexte historique, l’historiographie récente nuance cette idée. Exagérer son importance revient à occulter la longue histoire des frontières et tend à faire oublier que ce mythe est lui-même en partie hérité des discours impériaux.


    #cartographie #colonisation #géopolitique

  • I luoghi della memoria dell’Italia fascista

    Il territorio di questo paese conserva molte tracce del suo passato fascista sotto forma di edifici, monumenti, ma anche nomi di strade, vie o scuole. In alcuni casi, quando simboli, monumenti e intitolazioni sono presenti nella nostra vita quotidiana senza essere oggetto di commemorazione o ricostruzione memoriale specifica, essi giacciono lì, muti per la maggior parte della popolazione, ma presenti e disponibili a diversi tipi di riattivazione. In altri casi questi luoghi sono invece oggetto di commemorazioni e cerimonie, per lo più presidi di una memoria minoritaria, ma che riappare carsicamente nella storia d’Italia, coltivate da minoranze neofasciste o della nuova destra, che cercano di costruire un ponte che legittimi il presente attraverso la storia del passato fascista, ma anche che permetta di coltivare costruzioni identitarie antidemocratiche.

    Per riflettere su questi fenomeni, l’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha avviato un progetto che ha l’obiettivo di mappare e ricostruire progressivamente la storia dei ‘luoghi della memoria’ locale e nazionale del fascismo storico (1919-1945). Obiettivo del progetto è individuare e analizzare i monumenti e le intitolazioni di strade e edifici pubblici che sono stati costruiti come luoghi della memoria del fascismo durante il regime o negli anni successivi alla Liberazione del paese.

    Questa mappatura ha l’obiettivo di verificare la geografia di questi monumenti e di queste intitolazioni ricorrenti; leggerne la stratificazione storica e in ogni caso ricostruire la storia di questi luoghi della memoria, del significato che hanno assunto del tempo e di come sono stati modificati dal tempo o dagli uomini e dalle donne di questo paese. Questa ricerca dovrebbe così permettere di leggere e analizzare i diversi modi in cui nelle composite comunità locali e territoriali la memoria del fascismo è stata preservata e/o ricostruita, come questa costruzione si collochi in relazione con altre memorie politiche e come, nel corso di questi anni, in concomitanza con la rilegittimazione in corso dell’esperienza fascista, queste memorie si siano ridefinite e rialimentate. Questo progetto ha nutrito anche una riflessione scientifica più articolata, che è stata ripresa e riarticolata nel volume curato da Giulia Albanese e Lucia Ceci intitolato I luoghi del fascismo. Memoria, politica e rimozione (Viella, 2022).

    Questo progetto è coordinato da Giulia Albanese insieme a un gruppo di lavoro del comitato scientifico del Parri composto da Filippo Focardi (direttore scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri), Mirco Carrattieri, Lucia Ceci, Costantino Di Sante, Carlo Greppi, Metella Montanari, Nicola Labanca. Questo gruppo, a partire dal 2021, è stato sostituito dai membri del nuovo Comitato scientifico del Parri (2021-2024): Filippo Focardi (Direttore scientifico, Presidente), Laura Bordoni, Lucia Ceci, Annalisa Cegna, Chiara Colombini, Andrea Di Michele, Nicola Labanca, Matteo Mazzoni, Santo Peli, Antonella Salomoni, Giovanni Scirocco.

    Il progetto del sito e del database è stato realizzato da Igor Pizzirusso.
    Antonio Spinelli e Giulia Dodi hanno invece curato redazione, approfondimento scientifico e validazione delle schede (oltre a contribuire con ulteriori segnalazioni).
    Fondamentale è stato il lavoro dei volontari della rete degli istituti per la storia della resistenza che hanno inviato segnalazioni o realizzato il primo censimento, ma anche da studiosi indipendenti che hanno collaborato all’individuazione dei luoghi e alla loro schedatura. Questa ricerca è dunque il frutto di un progetto collaborativo e in progress, ma ciascuna scheda riporta l’indicazione dell’autore della compilazione.

    L’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha aperto una collaborazione con Postcolonialitaly.com, per rendere disponibili a quel progetto i luoghi coloniali censiti in questo sito e ricevere le schede di quel sito con riferimento ai luoghi coloniali che sono pertinenti per questo progetto. Nella scheda descrittiva daremo conto di eventuali schede derivate da quel progetto.


    https://www.luoghifascismo.it

    #Italie_fasciste #fascisme #Italie #cartographie #traces #visualisation #mémoire #toponymie #toponymie_politique #toponymie_fasciste

    –-

    ajouté à la métaliste sur l’Italie coloniale (la question coloniale se chevauche avec la question fasciste) :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione

      Cosa resta dei monumenti, dei complessi architettonici, delle opere d’arte attraverso cui il fascismo intese esplicitamente celebrare e tramandare sé stesso? Quale uso è stato fatto nell’Italia repubblicana di queste tracce materiali?

      In che modo la memoria dei luoghi del fascismo somiglia a quanto è avvenuto in altri stati con esperienze analoghe?

      Il volume indaga questi temi a partire da alcuni luoghi particolarmente significativi nella storia italiana (presenti in città come Roma, Milano, Latina, Livorno, Padova o in piccoli centri della Calabria) e di alcuni paesi europei (Germania, Spagna, Portogallo). Il lavoro si inserisce in un ampio progetto di ricerca dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri finalizzato alla mappatura dei luoghi della memoria commemorativa del fascismo in Italia.

      https://www.viella.it/libro/9791254691908

      #livre

  • Le corps d’un homme non identifié retrouvé à 2 300 mètres d’altitude

    Des randonneurs à skis ont trouvé un corps ce dimanche 19 mai à Névache. Une autopsie sera diligentée.

    Ce dimanche 19 mai, dans l’après-midi, un groupe de randonneurs à skis, dont un accompagnateur en montagne italien, a trouvé un corps, sous la pointe Balthazar, vers 2300 mètres d’altitude, à Névache, dans la vallée Étroite, a appris le Dauphiné Libéré.

    Le corps pas encore identifié

    Les secouristes du peloton de gendarmerie de haute montagne (PGHM) de Briançon se sont rendus sur place, avec les techniciens en identification criminelle de la gendarmerie de Gap, ainsi que la brigade de recherche de Briançon, à bord de l’hélicoptère de la section aérienne de gendarmerie.

    Le corps n’a pour le moment pas été identifié. Il s’agit d’un homme. Selon la procureure de la République de Gap, Marion Lozac’hmeur, « une enquête en recherche des causes de la mort a été ouverte et une autopsie sera diligentée. L’enquête aura pour objectif de déterminer la période et les circonstances de la mort ».

    https://www.ledauphine.com/faits-divers-justice/2024/05/20/le-corps-d-un-homme-non-identifie-retrouve-sous-la-pointe-balthazar

    Peut-être un migrant... mais les informations ne sont pas encore claires et vérifiées...

    #migrations #réfugiés #morts_aux_frontières #frontières #Névache #Hautes-Alpes #France #Italie #décès

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    • Névache : le corps non identifié d’un homme retrouvé à 2.300 mètres d’altitude

      Un groupe de randonneurs et un accompagnateur ont découvert un corps sous la pointe Balthazar dans la Vallée Étroite à 2.300 mètres d’altitude ce dimanche 19 mai. Une enquête a été ouverte.

      Macabre découverte pour un groupe de randonneurs et un accompagnateur en montagne italien ce dimanche 19 mai. Selon les informations de nos confrères du Dauphiné Libéré, un corps a été retrouvé sous la pointe Balthazar au niveau de Névache dans la Vallée Étroite (Hautes-Alpes) à 2.300 mètres d’altitude.
      Une autopsie prévue

      Des secouristes du peloton de gendarmerie de haute montagne de Briançon, des techniciens en identification criminelle de la gendarmerie de Gap et la brigade de recherche de Briançon se sont rendus sur place à bord de l’hélicoptère de la section aérienne de gendarmerie.

      Contactée par BFM DICI, Marion Lozac’hmeur la procureure de la République de Gap annonce « qu’une enquête en recherche des causes la mort a été ouverte, afin de déterminer l’identité du défunt, la période et les causes de la mort ». Elle ajoute qu’une autopsie « va être diligentée ».

      https://www.bfmtv.com/bfm-dici/nevache-le-corps-non-identifie-d-un-homme-retrouve-a-2-300-metres-d-altitude_

  • Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni

    Il colonialismo si è intrecciato con la storia d’Italia dall’Ottocento alla Seconda guerra mondiale e ha proiettato la sua ombra anche nel periodo repubblicano, fino ai giorni nostri. Muovendo dal più recente dibattito storiografico, il volume ricostruisce per la prima volta in maniera sistematica e sintetica la storia dell’espansionismo italiano in Africa in età liberale e durante il ventennio fascista e ripercorre le vicende delle sue eredità e implicazioni nell’Italia del secondo Novecento e del XXI secolo. Si raccontano non solo i progetti politici, le relazioni diplomatiche, le operazioni militari, le violenze dell’occupazione, le leggi razziste, ma anche i movimenti di persone da e per l’Africa e il modo con cui la scuola, i libri, i film, la scienza e i monumenti hanno reso possibile l’espansione, contribuendo a costruire immaginari che influenzano ancora oggi le vite di milioni di donne e di uomini.

    https://www.carocci.it/prodotto/storia-del-colonialismo-italiano

    #histoire #Italie #colonialisme_italien #Italie_coloniale #histoire_coloniale #fascisme #expansionnisme #Afrique

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  • Le invisibili

    L’oscuro passato di un’Italia coloniale raggiunge il presente attraverso le generazioni. Le storie private di due famiglie catapultano il lettore in una Storia che, come ogni altra epoca che l’ha preceduta e che seguirà, si consuma sul corpo delle donne, mentre nessuno guarda.

    https://neripozza.it/libro/9788854529120

    #livre #Italie_coloniale #colonialisme_italien #roman #Italie_coloniale #femmes #Elena_Rausa

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  • Perché serve mappare i “segni” del fascismo presenti nelle nostre città

    Targhe, intitolazioni e monumenti. I “resti” del regime ancora evidenti sul territorio italiano sono stati raccolti in una piattaforma online dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Ma tocca alla cittadinanza decidere in che modo agire per dargli un nuovo senso.

    Nell’atrio della questura di Trieste è impossibile non vedere una lapide che ricorda i nomi dei poliziotti caduti nel compimento del proprio dovere. Nell’elenco compare anche quello di Gaetano Collotti e di altri agenti che tra il 1942 e il 1945 avevano fatto parte dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza incaricato alla repressione di partigiani e antifascisti. A Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza, c’è ancora una via intitolata a Emilio De Bono, gerarca della prima ora e quadrumviro della Marcia su Roma. All’imbocco della galleria ferroviaria tra Ibla e Ragusa (RG) è ancora visibile la scritta: “Duce, i nostri caduti di guerra saranno vendicati”. Per non parlare dell’imponente obelisco all’ingresso del Foro italico di Roma, con le scritte “Mussolini” e “Dux”.

    Sono solo alcuni esempi -piccoli e grandi- dei molti luoghi dove ancora oggi è possibile trovare tracce del passato fascista dell’Italia, raccolti dai ricercatori dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri (che coordina la rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia) in una mappa online nell’ambito del progetto “I luoghi del fascismo” e che è possibile approfondire attraverso singole schede dedicate a ciascuna targa, intitolazione o monumento censito. “Il fascismo aveva un’idea molto chiara del fatto che il controllo politico del territorio passava necessariamente anche attraverso l’intitolazione di strade e monumenti -spiega Giulia Albanese, professoressa di Storia contemporanea presso l’Università di Padova e coordinatrice del progetto-. La forza di questo impatto, tuttavia, non è mai stata oggetto di una riflessione ampia da parte della classe dirigente dell’Italia repubblicana”.

    Il progetto affonda le sue radici in una discussione all’interno della rete degli Istituti per la storia della Resistenza rispetto ai simboli del regime ancora evidenti sul territorio. “A innescare questo percorso, nel 2018, fu il dibattito attorno alla possibile istituzione di un museo del fascismo a Predappio -ricorda Albanese-. La mia proposta fu quella di ragionare in maniera complessiva su quali fossero i luoghi commemorativi ancora presenti oggi in Italia e così, pur tra molte difficoltà, abbiamo dato il via alla mappatura”.

    Nel database e nella mappa sono stati inseriti monumenti e lapidi, scritte, intitolazioni di scuole e di vie che commemorano personaggi ed episodi legati al fascismo, sia a livello nazionale sia locale. Per individuarli è stato necessario applicare alcuni criteri: “Il territorio italiano è pieno di opere architettoniche che nel dopoguerra sono state utilizzate per altri scopi: noi abbiamo scelto di includere solo quelle che avevano forti segni commemorativi ancora visibili”, spiega Albanese. Un’analoga selezione è stata fatta per le vie che portano il nome di protagonisti o di luoghi legati al colonialismo italiano: in questo caso la scelta è stata di inserire solo quelle intitolate dopo il 1922, anno della presa del potere da parte di Mussolini. Il lavoro ha portato non solo alla creazione del sito (che può essere costantemente aggiornato ed è possibile inviare le proprie segnalazioni grazie a un apposito form) ma anche alla pubblicazione del volume “I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione” (Viella, 2022): una raccolta di saggi a firma di diversi autori che approfondiscono vari aspetti del tema.

    Da un punto di vista temporale parte di questi monumenti e di queste intitolazioni risalgono agli anni Venti e Trenta del Novecento e non sono stati rimossi con la caduta del regime. “Dopo il 1945 ci sono state alcune indicazioni in tal senso dalla presidenza del Consiglio dei ministri -ricorda Albanese- ma in generale la questione è stata demandata alle autorità, alle sensibilità e alle culture politiche locali. Nel nostro Paese è mancata una riflessione collettiva su che cosa fare con questo patrimonio e come agire per costruire un segno dell’Italia repubblicana sul nostro territorio”. Non solo: anche dopo il 25 aprile 1945 ci sono state nuove intitolazioni. “Questo è legato alla normalizzazione e alla banalizzazione dell’esperienza fascista, soprattutto nell’immediato dopoguerra. Poi, tra gli anni Ottanta e Novanta, assistiamo al ritorno nell’odonomastica di una serie di figure legate alla memoria di quel periodo storico e alla Repubblica sociale italiana, che fino a quel momento erano assenti -riprende Albanese-. Questa fase coincide con l’ascesa politica di Alleanza nazionale che ha fatto sì che alcune figure tornassero in auge. Ma non solo: fu Francesco Rutelli a proporre, nel 1995, di intitolare una strada di Roma a Giuseppe Bottai, già ministro sotto il fascismo. Segno anche di una certa inconsapevolezza di fronte a questi temi del mondo democratico e della sinistra”.

    Che cosa fare, quindi, con questa eredità poco evidente ma decisamente ingombrante? “Il nostro compito, come storici, è stato quello di individuare e mappare i segni commemorativi del fascismo al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica. È arrivato il momento di affrontare questo tema in un’ottica nazionale, superando le polemiche sui singoli episodi come è avvenuto in passato. Accogliere questa consapevolezza, discutere per valutare le opzioni possibili è una scelta politica, che riguarda la polis e il modo con cui questa si relaziona con la propria storia”, sottolinea Albanese. Possibili risposte agli interrogativi su che cosa fare di questi luoghi sono offerte da due episodi di risignificazione. Il primo riguarda l’arco di trionfo costruito a Bolzano nel 1928 per celebrare la “vittoria” italiana della Prima guerra mondiale: nel 2014, contestualmente a un intervento di restauro, è stato inaugurato un percorso espositivo dedicato alla storia della città tra il 1918 e il 1945 che permette agli osservatori di contestualizzare il monumento. Il secondo arriva dal Comune di Palazzolo Acreide (SR) dove nel 1936 venne posta una lapide per ricordare “l’enorme ingiustizia” delle sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni a seguito dell’invasione dell’Etiopia. “Nel 2014 l’amministrazione comunale ha deciso di non rimuoverla ma di affiancarla a una targa in vetro che esprime la lontananza politica e culturale dagli avvenimenti citati -conclude Albanese-. Questi processi di contestualizzazione storica sono molto efficaci perché aiutano a costruire una condivisione di valori attorno a episodi del passato senza censurarli”.

    https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta

    #Italie #toponymie_coloniale #toponymie_politique #noms_de_rue

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  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • #SNCF is stopping sales of most international tickets – a decision rooted in incompetence, and communicated with malevolence

    If you want to travel on 22nd May 2024 from Paris to Berlin (Germany), Verviers (Belgium) or Luzern (Switzerland), the app and website for SNCF ticketing, #SNCF_Connect, will show you prices and sell you a ticket. Try the same on 24th May 2024 and it will not. Here are the screenshots to prove it:

    Even connections to towns just the other side of the border – like Mouscron (Belgium) or Rastatt (Germany) are no longer available for purchase:

    As this explanation page on the SNCF website outlines, from 23rd May only a very limited selection of international tickets are available for sale from SNCF. There’s also a map listing what is available that looks like it was made in MS Paint.

    Let’s not play down the significance of this.

    SNCF Connect could until now sell you a ticket to any station in Netherlands (now reduced to just Amsterdam, Schiphol and Rotterdam), any station in Belgium (now just Antwerpen, Bruxelles, Liège), any station in Germany (now just the few stations directly served by cross border ICEs and TGVs), any station in Switzerland (now just anything served by TGV Lyria), any station in Italy (now just Ventimiglia, Torino, Milano) and any high speed station in Spain (now just Barcelona, Girona, Figueres).

    What the website of course does not say is why the change happened.

    So I set about getting to the bottom of the issue.

    On Monday 13th May I was travelling through Strasbourg so headed to the Grandes Lignes ticket office to ask. These conversations were in French, translated into English here.

    Me: “I want to take a train from Strasbourg to Berlin in mid-June, but I cannot get a price in SNCF Connect, can you help me?”
    SNCF employee: “It’s not possible any more”
    Me: “Really? Why is that?”
    SNCF: “It’s the fault of Deutsche Bahn!”
    Me (somewhat surprised at this point): “But other railways manage to sell Deutsche Bahn tickets still.”
    SNCF: “It’s Deutsche Bahn”

    I tried again at Grandes Lignes at Paris Austerlitz on Friday 17 May.

    Me: “I cannot manage to book a ticket on SNCF Connect from Paris to Berlin in June”
    SNCF: “It’s not possible any more. You will have to try with Deutsche Bahn or Trainline”
    (bit of a jaw drop here – Trainline, SNCF’s main ticket sales competitor?)
    Me: “Sorry, but I would like to know why this is.”
    SNCF: “It’s Europe’s fault”
    Me: “So please tell me this. If Deutsche Bahn can still sell SNCB tickets, ÖBB can still sell Trenitalia, but SNCF cannot sell any of these any more, then how can it be Europe’s fault that SNCF cannot sell these tickets?”
    SNCF: “But it is international agreements!”

    And that was then I broke, and told the employee what the actual reason is. Because Le Figaro has the gist of it, and I have had this confirmed to me by sources in other rail firms. SNCF’s IT system for these sales – #Résarail – is outdated and being closed down, and the new system is not yet available. And in the meantime sales of these tickets are simply not possible. Incompetence in other words. There is a financial consequence too – it is rumoured that railways receive a 10% commission on these sales amongst themselves. Bang goes that income for SNCF.

    But the communication about why this is the case crosses over into malevolence. Rather than facing up to the problem, SNCF resorts to finger pointing – at Deutsche Bahn, Europe, and international agreements. None of which are the reason.

    Also what SNCF is doing here is precisely the opposite of what it says it wants to do in its European Parliament election manifesto (full PDF here): “To attract more passengers, we are constantly seeking to improve the quality of our service and are investing heavily in all aspects of customer satisfaction. We have also made a joint commitment with our European partners to improve international ticketing“. If we are to believe the Community of European Railways – of which SNCF is a member – it is only a matter of time before state owned railway firms in Europe sort out these cross border ticketing headaches – while the actual behaviour of one of Europe’s largest railway companies is precisely the opposite.

    The likes of Trainline, Omio, SNCB International and Deutsche Bahn will pick up most of the slack, but not all. Passengers unable to book online and who previous relied on purchasing these tickets at ticket offices in France will be left stuck.

    None of this is clever or sensible, but sadly that is what you get from SNCF when it comes to anything international.

    https://jonworth.eu/sncf-is-stopping-sales-of-most-international-tickets-a-decision-rooted-in-i
    #France #mensonge #incompétence #chemins_de_fer #international #billets_internationaux #technologie #on_marche_sur_la_tête

    via @freakonometrics

  • Ukrainian Refugees in Switzerland: A research synthesis of what we know

    The objective of this research synthesis is to collect and summarize the research literature on Ukrainian refugees in Switzerland. This is done through a systematic review, mostly in the form of a narrative review and with statistical indicators that are synthesized. There is a wide range of evidence on Ukrainian refugees in Switzerland and their integration, although substantive and systematic gaps remain. The review provides a brief historical background, looks at the demographic composition of Ukrainian refugees in Switzerland, discusses economic integration, housing, education, social integration, crime and safety, health and well-being, and attitudes to Ukrainian refugees. Much less is known about cultural integration and political participation. Given the size of the population and the ongoing war in Ukraine, more research on Ukrainian refugees is warranted, particularly in the direction of successful integration in a context where return seems increasingly unlikely — although dual-intent remains the official focus —, and in areas beyond economic integration that affect well-being and intentions to return.

    https://osf.io/preprints/socarxiv/tcnhx

    #statistiques #chiffres #réfugiés_ukrainiens #réfugiés #Ukraine #asile #migrations #Suisse

  • Longtemps que je n’ai pas fait un #SeenthisSaitTout : je me souviens du travail d’un-e artiste qui avait remplacé les corps de personnes noires par des corps de personnes blanches sur des photos de conflits et de massacres, pour mettre en évidence la différence de perception en Occident. Mais je n’arrive pas du tout à retrouver ce travail. Est-ce que quelqu’un le connaîtrait ?

  • Quels droits pour les promeneurs, entre droit d’accès à la nature et propriété privée ?
    https://theconversation.com/quels-droits-pour-les-promeneurs-entre-droit-dacces-a-la-nature-et-

    Se promener dans la nature, cela peut-être, selon le point de vue que l’on adopte, un droit, un loisir, un sport, un bienfait pour la santé, mais aussi, depuis une récente loi passée en février 2023, une infraction pénale. Car une grande majorité des forêts françaises ne sont pas publiques, et que l’accès aux espaces naturels et aux forêts privés est désormais sanctionné par une amende de 135 euros. Comment en est-on arrivé là et quel avenir se dessine pour l’accès à la nature ?

    #propriété_privée

  • La #Suisse et la #colonisation : nouveaux articles en ligne

    Quelle est la place de la colonisation dans l’histoire et les pratiques de savoir en Suisse ? Deux publications récentes abordent cette question sous les aspects de l’histoire et des archives.

    Le Dictionnaire historique de la Suisse publie un dossier comprenant une quinzaine d’articles nouveaux ou remaniés sur les #ramifications_coloniales de la Suisse (https://hls-dhs-dss.ch/fr/dossiers/000033/2024-04-30). Il comprend des articles - en Français, Allemand, et Italien - consacrés à des notions clés - #colonisation, #racisme, #abolitionnisme - ainsi qu’à des Suisses et des Suissesses présents à divers titres dans les #colonies.

    La revue spécialisée suisse pour les archives, les bibliothèques et la documentation arbido consacre son dernier numéro à la Décolonisation des archives (https://arbido.ch/fr/edition-article/2024/dekolonialisierung-von-archiven-decolonisation-des-archives). Des réflexions théoriques et des exemples de projets concrets donnent un aperçu varié de la thématique.

    https://www.infoclio.ch/fr/la-suisse-et-la-colonisation-nouveaux-articles-en-ligne

    #Suisse_coloniale #archives #histoire #Suisse

    ping @cede

  • Rome : #Freedom_of_Movement_Solidarity_Network for migrants launched

    A new alliance between NGOs operating on the mainland and at sea to support migrants, called the Freedom of Movement Solidarity Network, was presented in Rome on May 15.

    The Freedom of Movement Solidarity Network is a new alliance that includes groups operating along migration routes — on the road, in forests, at sea, and on mountain trails — to help people on the move.

    Promoters of the network presented on May 15 in Rome at the Foreign Press Association included the following associations: Baobab Experience, Bozen Solidale, Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, Como senza frontiere, Linea d’Ombra, No Name Kitchen, On Borders, Refugees In Lybia, ResQ - People saving people, Rete Milano, Sea-Watch, Small Axe, as well as individuals like Father Massimo Biancalami, Loredana Crivellari, Father Giusto Della Valle, Francesco Delli Santi, Filippo Lombardo Tiziano Rossetti and Tommaso Stella.

    International gathering in June in Rebbio

    “Today, a network for the freedom of movement sees the light after two years of meetings in Rebbio, between Como and the Swiss border, during which experiences, opinions and discussions were shared on how to bring solidarity to migrants,” said the president of Baobab Experience, Andrea Costa.

    Costa added that this network will not lead to the dissolution of its members, but rather represents a “step forward towards joint action and a way to operate involving everyone, regardless of the group they belong to.”

    The president of Baobab Experience stressed that the new network has been presented “after the approval of the EU pact on migration and before upcoming European elections that appear to design a Europe that is even less friendly towards migrant people.”

    He also announced that an international assembly will be held on June 29-30 in Rebbio with Italian associations and their counterparts operating in other European countries.

    “We are presenting the network in the name of a collective choice to stand with people on the move,” explained Piero Gorza, a member of On Borders.
    EU questioned over ’securitarian policies’

    All participants accused the EU of promoting “securitarian policies and rampant externalization, a model launched in 2017 with the memorandum of understanding between Italy and Libya by then-interior minister Marco Minniti,” denounced Luca Morelli, member of Sea-Watch, who joined the meeting via video link from Lampedusa.

    “We have to create another model against that of deportations, create a common front to support the journey of people in movement,” he continued, highlighting a “protection system torn apart,” citing as examples Italy’s Cutro law including controversial restrictions to the country’s protection regime and the new EU pact on migration and asylum.

    David Yambio, spokesman of Refugees in Libya, said “the situation in Tunisia and Libya is the direct consequence of European policies.”

    “The accords scrap freedom of movement, Tunisia has become hell” after an agreement was forged between the Italian government of Premier Giorgia Meloni and Tunisian President Saied, he claimed.

    Yambio said he is in contact with thousands of people in Libya, Tunisia, Algeria and Morocco who don’t have access to information and are abandoned or treated like criminals.

    Trafficking the product of borders and barriers - Baobab

    Alice Basiglini, spokesperson of Baobab Experience, recalled that aid facilities on the mainland and rescue vessels at sea can also monitor the situation “constantly, safeguarding the security of people in movement.”

    “We recognize freedom of movement as a universal right”, she said, citing the Universal Declaration of Human Rights, and called for grassroots action against the “current policies of the EU and member States forcing people to undertake increasingly dangerous journeys.”

    According to Basiglini, “human trafficking is the product of present borders and barriers, thanks lately to the Migration pact. We are opposed to policies of flows, people are not goods and they cannot enter in relation to the needs of the labor market”.

    She also expressed opposition to the “Libyan model created in 2017 and then replicated by Egypt, Tunisia and Albania”.

    “We are in favour of safe passages under the light of the sun, which is why we are denouncing our action in support of people in movement”, she concluded.

    https://www.infomigrants.net/en/post/57150/rome-freedom-of-movement-solidarity-network-for-migrants-launched

    #alliance #migrations #asile #réfugiés #solidarité #liberté_de_mouvement #Rebbio #Rete_Rebbio

    ping @isskein @karine4 @_kg_

  • Israel’s Genocide of Palestinians in Gaza

    The prohibition of the crime of genocide is a peremptory norm of international law from which no derogation is permitted. In light of the extraordinary implications of a finding that Israel may be committing genocide against the Palestinian people in Gaza, the University Network for Human Rights, the International Human Rights Clinic at Boston University School of Law, the International Human Rights Clinic at Cornell Law School, the Centre for Human Rights at the University of Pretoria, and the Lowenstein Human Rights Project at Yale Law School have conducted a thorough legal analysis of Israel’s acts since October 7, 2023, as situated in their historical context.

    The Genocide in Gaza report concludes that Israel has violated its obligations under the Genocide Convention of 1948, setting forth the facts that establish the requisite mens rea associated with genocidal intent, and the acts that violate Articles II and III of the Convention. Our aim, as experts in human rights and humanitarian law, is to provide a rigorous academic analysis of Israel’s actions since October 7, 2023 in order to aid in ongoing assessments of the current situation through the lens of the law on genocide.

    Since October 7, 2023, tens of thousands of Palestinians in Gaza, including men, women, children, and elderly persons, have been killed or injured. Israel’s military operation has destroyed or damaged the great majority of homes in Gaza and has decimated civilian infrastructure, including hospitals, schools, universities, UN facilities, and cultural and religious heritage sites. An overwhelming majority of Gaza’s population has been forcibly displaced as a result of Israel’s military offensive, and civilians in Gaza face catastrophic levels of hunger and deprivation due to Israel’s restriction on, and failure to ensure, adequate access to basic essentials of life, including food, water, medicine, and fuel. Israel’s actions in Gaza have been accompanied by multiple expressions of genocidal intent by Israeli government leaders, including by Prime Minister Benjamin Netanyahu. This genocidal intent is further manifested in the nature and conduct of Israel’s military operations.

    The joint report draws from a diverse range of credible sources, including reports by United Nations and aid agencies, investigations by human rights organizations, media reports, and public statements and testimonies. In determining violations of the Genocide Convention, our analysis is guided by the established principles of international law, international jurisprudence, widespread state practice accepted as customary law, and the Convention’s drafting history. Additionally, our report draws on Gaza’s history leading to the present moment, in recognition that genocide rarely occurs as a single moment but is rather an unfolding result of processes and practices over time.

    Our analysis concludes that actions taken by Israel’s government and military in and regarding Gaza following the Hamas attacks of October 7, 2023, constitute breaches of the international law prohibitions on the commission of genocide. The report further argues that these violations give rise to concrete obligations to all other States, namely, to refrain from recognizing Israel’s breaches as legal or from taking any actions that may amount to complicity in these breaches, and to take positive steps to suppress, prevent, and punish the commission of further genocidal acts against the Palestinian people in Gaza.

    https://www.humanrightsnetwork.org/palestine

    #rapport #génocide #Gaza #Israël #Palestine #rapport #droit_international #analyse #University_Network_for_Human_Rights

  • Le #contrat_d’engagement_républicain, outil de mise au pas du monde associatif

    Dispositif phare de la #loi_séparatisme de 2021, le #CER oblige les associations demandant une subvention à s’engager à respecter les principes républicains. Si son mécanisme de sanction a été très peu activé, il est utilisé régulièrement comme outil de pression politique.

    CrééCréé afin de lutter contre « l’islamisme radical » et « tous les séparatismes », le contrat d’engagement républicain (CER) n’a, à ce jour, jamais en réalité été invoqué à l’égard d’associations confessionnelles, qu’elles soient islamistes ou liées à d’autres mouvements radicaux ou séparatistes, révèle un décompte réalisé par l’Observatoire des libertés associatives.

    Et sur les vingt-quatre cas relevés, seuls trois portent sur des faits liés à la religion musulmane au sein d’associations telles qu’une section locale du Planning familial, accusée d’avoir représenté une femme voilée sur une affiche, une MJC, à laquelle on a reproché d’avoir embauché des femmes voilées, et une association d’aide aux femmes, accusée sans preuve de « prosélytisme religieux ».

    Pour le reste, le CER, que les associations doivent obligatoirement signer lorsqu’elles demandent une subvention, a été brandi à l’égard de l’association Alternatiba Poitiers accusée de « désobéissance civile » ; d’une association d’aide aux mal-logé·es, l’Atelier populaire d’urbanisme (APU), dont une salariée est accusée de violences verbales envers des agents municipaux ; d’une association d’aide aux immigré·es ayant appelé à une manifestation contre les violences policières interdites ; d’une télévision associative, Canal Ti Zef à Brest, mobilisée dans la lutte contre l’évacuation d’un squat ; ou encore d’une compagnie de théâtre, la compagnie Arlette Moreau à Poitiers, ayant moqué son préfet.

    Loin, donc, des ambitions affichées par la loi « confortant le respect des principes de la République », dite loi « séparatisme », dans son exposé des motifs : lutter contre « un entrisme communautaire, insidieux mais puissant », qui « gangrène lentement les fondements de notre société dans certains territoires. Cet entrisme est essentiellement d’inspiration islamiste », précisait l’exécutif, initiateur de ce texte.

    Lors de l’adoption de la loi séparatisme, à l’été 2021, des député·es de l’opposition et des responsables associatifs avaient déjà alerté sur les risques d’un détournement du CER dans un but de répression politique. Et c’est sans surprise que, peu après son entrée en vigueur au mois de janvier 2021, ce contrat, qui impose sept engagements aux associations, qui peuvent en cas de violation perdre une subvention et même devoir la rembourser si elle a déjà été versée, a été en premier appliqué au Planning familial puis à des associations écologistes.

    Parler de détournement du CER est excessif. Lorsqu’on relit les débats parlementaires, on se rend en effet compte que la majorité assumait, dès le départ, le fait de ne pas viser exclusivement les associations séparatistes radicales mais toute association ayant recours à certains modes d’action liés à la désobéissance civile.

    Ainsi, lors de la séance à l’Assemblée nationale du 30 juin 2021, face à des député·es de l’opposition qui l’interpelaient sur les risques d’application du CER à des associations telles que Greenpeace ou Act Up, le député de la majorité et président de la commission spéciale chargée du projet de loi, François de Rugy, confirmait qu’elles seraient bien menacées.

    Au ministre de la justice, Éric Dupond-Moretti, il avait été demandé si les organisations participant à des actions de désobéissance civile comme le fauchage d’OGM ou le « démontage » d’un restaurant McDonald’s, en référence à une action de la Confédération paysanne d’août 1999, seraient concernées. « Bien sûr ! », avait répondu le garde des Sceaux.

    Pourtant, malgré ce champ d’application particulièrement large, le contrat d’engagement républicain est en partie un échec pour le gouvernement. « Le bilan est encore loin d’être concluant », constatait un rapport d’évaluation du Sénat publié au mois de mars, qui soulignait le peu de cas de mobilisation du CER – quatre selon le rapport – et des modalités d’application disparates en fonction des collectivités. « Cette loi ne fait peur à personne. Surtout pas aux islamistes », assénait même sa rapporteuse, Jacqueline Eustache-Brinio.
    Comment le gouvernement s’est lui-même piégé

    L’une des raisons à cette application minime du CER vient en partie d’un effet pervers juridique. En créant ce contrat, le gouvernement s’est en quelque sorte piégé lui-même. Il n’existe pas en effet de droit à la subvention pour les associations. Chaque collectivité dispose de ce fait d’un droit discrétionnaire en matière d’attribution et elle peut refuser ou accorder telle ou telle subvention sans avoir à se justifier.

    En créant le CER, la loi séparatisme a créé un nouvel acte administratif qui offre une prise juridique, un recours possible pour les associations. Or, dans la seule décision visant directement le CER rendue à ce jour, le tribunal administratif de Poitiers a rejeté la demande du préfet de la Vienne visant à obtenir le remboursement d’une subvention versée à l’association Alternatiba pour avoir tenu un atelier de désobéissance civile.

    D’autres recours lancés ces derniers mois devraient permettre de préciser cette jurisprudence naissante. Mais on peut comprendre que certaines collectivités ou certains préfets préfèrent se réfugier derrière un manque de crédit ou leur droit discrétionnaire plutôt que d’invoquer le CER et de prendre le risque de devoir se justifier devant le juge administratif.

    Le CER a pourtant bien eu des effets importants sur les libertés associatives. Mais ceux-ci, bien réels, sont souvent localisés et souterrains, et donc moins visibles. Dans les vingt-quatre cas recensés par l’Observatoire des libertés associatives, le CER n’est en effet appliqué directement et officiellement pour prononcer une sanction que dans cinq. Dans tous les autres, il n’est par exemple qu’évoqué à l’oral dans une réunion ou dans un mail ou brandit comme une menace, sans que l’on sache s’il est vraiment à l’origine d’une sanction à non.

    Au mois d’août dernier, Le Monde révélait ainsi qu’il existe une « liste rouge » d’associations basées dans la région du plateau de Millevaches qui seraient privées de subventions par la préfecture sans que cela leur ait été officiellement notifié, leur ôtant ainsi toute possibilité de recours.

    Plus récemment, une association d’aide aux immigré·e·s, l’Asti du Petit-Quevilly en Seine-Maritime, s’est vu « rappeler » ses engagements par la préfecture pour avoir appelé à une manifestation contre les violences policières interdite. Celle-ci a transmis cet « avertissement » aux partenaires financiers, dont la métropole de Rouen, qui a en conséquence suspendu l’examen des demandes de subvention de l’Asti.

    « Il y a chez certaines collectivités une profonde incompréhension du CER, qui est utilisé à tort et à travers, et notamment comme un moyen de pression, de régulation des relations avec les associations », analyse Claire Thoury, présidente du Mouvement associatif, une organisation regroupant environ 700 000 associations, et qui avait publié, en janvier 2023, un premier bilan de l’application du CER.

    « L’interprétation de ce que recouvre le CER que chaque collectivité peut faire est problématique car il peut être interprété de mille et une façons, abonde Elsa Fondimare, maîtresse de conférences en droit public à l’université de Nanterre. Il sert, de plus, à limiter la liberté en amont. Ce n’est en effet pas qu’une question de subvention et d’argent. Le fait d’invoquer le CER à tort et à travers va conduire les associations à adapter les luttes qu’elles défendent et les moyens qu’elles emploient. Et cette autocensure est une menace très grave pour les libertés associatives. »

    « Le CER a désormais un effet presque plus symbolique que pratique », ajoute Julien Talpin, chercheur en science politique au CNRS et l’un des fondateurs, en 2019, de l’Observatoire des libertés associatives. « On peut penser que certaines associations n’oseront plus aborder certains sujets comme les violences policières ou en ce moment le conflit israélo-palestinien. Le problème est de réussir à objectiver ces effets indirects et diffus et cette autocensure. »

    « Le CER correspond à une appréhension très morale de ce que doit être une association », pointe encore Claire Thoury. « La liberté, l’égalité, la fraternité existent bien en tant que concepts juridiques, ajoute Elsa Fondimare, juriste, auteure d’un article intitulé « Républicanisme contre écologisme. Quelle place pour la désobéissance civile à l’heure du contrat d’engagement républicain ». Mais ce sont des principes extrêmement malléables, qui peuvent facilement être interprétés d’une manière ou d’une autre. »

    « Il y a donc une dissonance entre ce que prétend défendre le CER et les conséquences de son application à certaines associations, pointe-t-elle. Cela ne fait en outre qu’ajouter de la confusion à ce que sont les valeurs républicaines. »

    L’entrée en vigueur du CER est en outre intervenue dans un contexte de défiance croissante entre le monde associatif et les autorités. « Nous sommes en fait dans un contexte de dérive générale », affirme Claire Thoury. « On a l’impression que chaque occasion est bonne pour remettre en cause les libertés associatives », poursuit-elle en citant l’exemple d’un amendement déposé au mois d’octobre dernier au projet de loi de finances proposant de retirer les avantages fiscaux des associations condamnées pour certaines actions.

    « Il y a également eu récemment le maire de Saint-Raphaël qui impose à toutes les associations touchant des subventions de participer aux manifestations patriotiques de la ville. C’est hallucinant ! », s’indigne la présidente du Mouvement associatif.

    « Nous assistons ces dernières années à une remise en cause des partenariats entre la société civile et les collectivités, complète Julien Talpin. C’est une page qui se tourne, celle d’une alliance possible entre les pouvoirs publics et les associations, dont certaines peuvent certes être critiques mais qui constituaient ce contre-pouvoir démocratique grâce à un rôle hybride. »

    « Ces associations offrent en effet un service à des populations que les collectivités ont de plus en plus de mal à atteindre, poursuit le chercheur. C’est un modèle qui avait été assez fort à partir des années 1980, mais qui est remis en cause. » Julien Talpin fait remonter cette dégradation à l’année 2015, « durant laquelle deux mouvements contradictoires se sont rencontrés ».

    « D’un côté, ce fut l’année de la circulaire Valls », poursuit-il, un texte « qui clarifiait les modalités d’attribution des subventions, [qui] avait été perçu comme une victoire et une reconnaissance du rôle des associations ». « Mais 2015, c’est également l’année des attentats et l’accélération du durcissement du traitement des mobilisations sociales, un tournant autoritaire et donc une conflictualité plus forte dans les rapports entre les autorités et la société civile », explique encore Julien Talpin.

    « Pourtant, dans un contexte de crise démocratique actuel, nous avons encore plus besoin des associations pour toucher des publics éloignés de ces questions, ajoute le chercheur. Elles redonnent un pouvoir à des groupes sociaux sous-représentés et elles sont des écoles de la démocratie, des lieux d’éducation populaire à la vie publique. »

    « Les associations ne sont pas là pour faire plaisir aux pouvoirs publics, insiste Claire Thoury. Ce n’est pas leur mission. Mais l’inverse non plus ! Une association peut très bien s’opposer à une collectivité sur un sujet précis et être en accord sur un autre. C’est ce qu’on appelle un contre-pouvoir et c’est tout simplement le cours normal de la vie démocratique. »

    « Je prends souvent l’exemple d’Act Up et de leur action durant laquelle ils avaient déroulé un préservatif géant sur l’obélisque de la Concorde, poursuit la présidente du Mouvement associatif. Est-ce qu’il s’agissait d’un trouble à l’ordre public ? je pense que oui. Mais, aujourd’hui, on sait combien cette médiatisation a été importante dans la lutte contre le sida. »

    « Les associations sont un outil d’apprentissage des libertés et de la démocratie extrêmement puissant, conclut Claire Thoury. Cela permet d’expérimenter et de penser des nouveaux cadres, des nouvelles manières de faire. Le problème est que certains ne comprennent pas à quoi on sert ; que les aspérités, le débat, le conflit, c’est ce qui fait vivre la démocratie. »

    https://www.mediapart.fr/journal/france/160524/le-contrat-d-engagement-republicain-outil-de-mise-au-pas-du-monde-associat
    #désobéissance_civile #répression #associations #séparatisme #détournement #cartographie

  • [Extrait] Des #chiffres et des êtres

    Au moment où bénéfices et dividendes battent tous les records, Macron, Attal et Le Maire ont eu une idée géniale pour trouver de l’argent, et marcher en chantant vers le « plein-emploi » : taillader davantage encore les droits des chômeurs.
    Contre toute logique économique et sociale, contre les faits et les études, mais par pure idéologie. Avec un mantra en guise d’argument : « ça fonctionne. » Le chômage, ça y est, ils en seraient venus à bout, ou presque. Comme eux ne rencontreront jamais les victimes de leurs décisions, on est allé les voir. On s’est plongé dans les chiffres.
    Et la réalité est légèrement différente de celle qu’ils nous vendent.

    Extrait du dossier du Fakir n° 112, disponible en kiosque et sur notre boutique en ligne !
    Commander le numéro : https://fakirpresse.info/boutique/20-le-journal
    JT de TF1. Mercredi 27 mars.

    « Oui, il y aura une #réforme de l’#assurance_chômage cette année. On veut davantage de Français qui travaillent, parce que ça permet d’augmenter les recettes. »
    C’est Gabriel Attal qui pérorait ainsi au 20h00 de TF1, devant toute la France, donc, ce mercredi 27 mars, quelques jours après ma rencontre avec Alexandre. On a appris à quoi s’en tenir, quand ils parlent de « réformes ». « Il y a beaucoup de Français de classe moyenne qui travaillent et qui se disent "je fais beaucoup d’efforts, je finance par mon travail un modèle qui permet parfois à certains de ne pas travailler." » Je me disais bien… Et il annonçait donc, notre Premier ministre, son ambition de réduire la durée d’indemnisation du chômage.
    Il est fou.
    Ils sont fous.
    Ils sont fous, je me dis, et il ne doit pas en connaître tant que ça, des Français qui lui parlent du chômage. Ou alors, pas ceux qui le vivent.
    Quelques jours plus tard, il remettait ça, toujours dans les médias. Il « assume », prévient-il même. C’est toujours simple, d’« assumer », c’est un joli mot joker, ça : « j’assume », et voilà, ça clôt le débat. Mais bon, je me doute bien que lui ne va pas assumer grand-chose. C’est plutôt d’autres, qu’il n’a jamais croisés, et ne croisera sans doute jamais, qui vont devoir « assumer ».
    Enfin bref, écoutons la suite.
    « On est passé de 9,6 % à 7,5 % de chômage. Cette baisse historique, on ne l’a pas obtenue par magie. C’est le fruit de nos réformes, notamment de l’assurance chômage. »

    C’est vrai qu’ils l’ont déjà réformée, l’assurance chômage, les Macronistes, depuis qu’ils sont au pouvoir.
    Et pas qu’une fois.

    Je me plonge dans les archives – pas bien anciennes, les archives, remarquez. Qu’on résume :

    – Octobre 2018 : les cotisations sociales pour le chômage sont supprimées, purement et simplement. L’indemnisation du chômage sera désormais financée par une hausse de la CSG. Ça ne change rien ? Ça change tout, en fait : alors que les cotisations étaient uniquement destinées à l’indemnisation chômage, gérées par les salariés et le patronat, la CSG est versée au budget général. Le gouvernement l’utilise comme il veut, et peut désormais décider de tailler à volonté dans les allocations. La mise à mort d’un régime de soixante ans, dans l’indifférence quasi-complète.
    – 2021 : le gouvernement durcit les conditions d’accès à l’allocation : il faut avoir travaillé six mois (contre quatre auparavant), pour y avoir droit. Il tranche aussi, à la hache, dans le montant des indemnités pour les travailleurs au parcours professionnel fracturé.
    – 2022 : on « modulera » désormais les allocations en fonction de la conjoncture économique.
    – Février 2023 : après la baisse du montant, après le durcissement de l’accès aux droits, on diminue de 25 % la durée d’indemnisation. La durée maximale passe par exemple de deux ans à dix-huit mois.

    En d’autres termes : depuis six ans, et dans l’attente d’une nouvelle « réforme », donc, les chômeurs ont plus de difficultés à obtenir des indemnités, celles-ci sont moins importantes, et versées moins longtemps.

    Avec quels effets, pour les demandeurs d’emploi ?
    Ils se prennent un mur, pour ainsi dire.
    La Dares, la direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques, rattachée au ministère du Travail, a publié en début d’année une étude sur le sujet. Les ouvertures de droits se sont effondrées : moins 17 %, entre 2017 et 2022. Dans l’histoire, ce sont les jeunes, les travailleurs en fin de CDD ou d’intérim, les plus précaires, donc, qui prennent le plus cher. Sachant que, selon l’Insee, ce sont déjà les ouvriers et les employés qui se retrouvent le plus souvent au chômage.
    Et ceux qui continuent à arracher des droits sont moins bien indemnisés, pour plus de la moitié d’entre eux : jusqu’à 50 % en moins, même. Ils ne sont par ailleurs plus que 36 % de chômeurs, aujourd’hui, à toucher une allocation – un chiffre qui n’a jamais été aussi bas. [...]

    Voilà de belles rentrées d’argent frais pour le gouvernement, toujours obsédé par une seule et même idée, guidé par une seule et même boussole : ne surtout pas toucher aux dividendes, aux superprofits, aux bénéfices du CAC 40 qui explosent.
    En l’occurrence, ce sont 6,7 milliards que les différentes coupes dans les droits des chômeurs permettront bientôt de récupérer, chaque année. Et Macron et Attal ont déjà fait leurs calculs : la nouvelle réduction annoncée de la durée d’indemnisation permettrait de gratter encore 3 milliards supplémentaires, sur le dos de quelque 400 000 allocataires supplémentaires poussés en fin de droits chaque année.
    Pour quels effets ?

    Voilà au moins rempli un premier objectif, sonnant et trébuchant, de ces coupes à la hache : récupérer de l’argent.
    Mais pour l’autre, affiché publiquement ?
    Réduire le nombre de chômeurs, leur permettre de retrouver du travail ?
    Quels sont les effets sur les chiffres du chômage ?
    « Le fruit de ces réformes », c’est « une baisse historique » du chômage, assure donc Gabriel Attal. Et les membres du gouvernement, et le Président lui-même, n’y vont pas de main morte pour vanter les effets de leur remise au pas de ces feignants de chômeurs. Ils nous inondent de tweets, même.
    « Cela fait 40 ans que le niveau du chômage n’avait pas été aussi bas. Objectif plein-emploi ! » s’enthousiasmait Emmanuel Macron en mai 2023, annonçant un taux de chômage descendu à 7,1 %.
    « Depuis 40 ans, aucun gouvernement n’a fait mieux ! La bataille pour le plein-emploi en passe d’être gagnée ! » savourait Marie Lebec, actuelle ministre des relations avec le Parlement. Ça commençait à sentir les éléments de langage…
    « Nous atteignons le plus bas niveau de chômage depuis 1982 ! », hurlait (même en tweetant) Olivier Dussopt, alors ministre de la retraite à 64 ans (on ne se souviendra de lui qu’ainsi).

    Et le bal des satisfecit, continuait ainsi, de jour en jour, de semaine en semaine. Problème : aucune étude n’a à ce jour fait le lien entre les réformes menées depuis 2018 et l’évolution du taux de chômage : le recul manque, encore. Certaines sont en cours, mais rien n’indique que la baisse, si baisse il y a (mais on y reviendra), soit corrélée au travail de sape entrepris par Macron et ses gouvernements successifs. « C’est de la com’ de base, du mytho ! » C’est Alexandre, au café, qui m’avait sorti ça, à l’évocation d’un chômage en baisse. Il se marrait, même. « Plus ils durcissent les conditions, moins il y a de chômeurs ? Ben oui, puisqu’ils n’ont plus de droits à l’assurance, les gens ne voient plus l’intérêt de s’inscrire à Pôle emploi : ça ne leur amène rien. Je le vois bien. Donc plus ils durcissent et plus les statistiques sont en leur faveur. Et plus ils peuvent te dire "Regardez, on arrive au plein emploi…" » Bon, c’est un ressenti personnel, de terrain, pour le coup.

    Mais Bruno Coquet, économiste, chercheur associé de l’Observatoire français des conjonctures économiques, estime lui que « durcir les règles de l’assurance-chômage, ça ne crée pas d’emploi ».
    Et même une chercheuse, titulaire au passage du prix Nobel d’économie (en 2019), va dans ce sens… « On trouve très très peu, ou pas, d’effets de la générosité des allocations chômage sur l’emploi » posait Esther Duflo, donc, sur France Inter, en novembre 2022. Elle poursuivait : « En fait, il y a un désir très profond, chez beaucoup de gens, de travailler, et en particulier de travailler dans des emplois qui ont du sens et de la dignité. Les hommes et les femmes politiques ont une méfiance vis-à-vis des chômeurs ou de ceux qui ne travaillent pas et se disent "ouh là, si les allocations chômage sont trop généreuses, ils ne vont pas vouloir travailler et devenir paresseux", mais en fait, on n’en voit absolument pas la preuve. »
    Je le confesse : j’aime bien, quand les observations d’un chômeur en rupture collent avec l’analyse d’une prix Nobel. Ça montre d’un coup un peu mieux qui est déconnecté de la réalité, dans ce pays.

    D’ailleurs, en repensant à Alexandre, il m’avait aussi donné un contact. Celui d’une conseillère Pôle emploi – pardon, France Travail, puisque la transformation de l’un en l’autre fait aussi partie des grands changements instaurés par le gouvernement. Rosa, elle s’appelle – enfin pas vraiment, mais elle préfère garder l’anonymat, pour témoigner. Je suis allé la voir, du coup, après son boulot, dans une grande ville de banlieue parisienne. En bavardant, sur le banc d’un square pas loin de son agence, elle jongle entre son thermos de thé et un croissant. Rosa s’occupe en particulier des jeunes, ceux qui cherchent un premier emploi ou une alternance. J’osais pas trop lui poser la question d’emblée, mais les chômeurs que j’avais rencontrés étaient plutôt durs, avec les conseillers #France_Travail

    « France Travail, ça change des choses, plutôt que Pôle emploi ?
    -- Bah, disons qu’ils ont réuni tous les acteurs de l’insertion sous une même enseigne, et Pôle emploi devient une sorte de carrefour pour amener les gens ailleurs. Aussi, on fait plus avec moins. C’est tout bête, mais ils font des économies sur tout. Sur le ménage, par exemple. Et bosser dans le sale, c’est pas terrible, comme conditions. Ils avaient annoncé qu’il y aurait davantage d’argent, mais il ne passe ni dans les embauches ni dans les salaires, alors je ne sais pas où. On a de moins en moins de conseillers entrants, et de moins en moins de CDI. Ma directrice, elle nous a fait une réunion pas plus tard que tout à l’heure : "Bon, on a un problème de bureaux, parce qu’on n’a plus assez de financements." Concrètement, on n’a plus assez de bureaux pour le nombre de conseillers. "Donc maintenant, ce sera premier arrivé, premier servi. Ceux qui arrivent les derniers devront s’installer dans la salle de réunion." Vous imaginez, la confidentialité quand vous recevez des gens ? On est nuls, nuls. Déjà, depuis quelques années, on a des bureaux ouverts, pour qu’on puisse circuler et s’échapper si jamais on nous agresse. Et ça gêne beaucoup les gens qui viennent, parce que tout le monde autour entend toute leur histoire. Personne n’aime ça, pas plus eux que nous. Alors là, dans la salle de réunion…
    -- Et vous avez beaucoup de demandeurs d’emploi dans votre liste ?
    -- Dans notre "portefeuille" ? Vous pouvez employer le terme, parce que c’est celui qu’on emploie. Moi j’ai 70 actifs, tout le temps, mais je suis affectée juste sur les jeunes, donc ça va. Officiellement, on annonce entre 100 et 200 actifs par conseiller, mais c’est faux. Certains collègues, pour guider et aider un peu dans la recherche, ils peuvent avoir 300, 400 actifs, 400 personnes à suivre. Et pour le simple suivi, on peut avoir plus de 500 actifs. Et là, c’est énorme. Le gouvernement, son but, c’est qu’on leur parle personnellement chaque semaine. Mais c’est pas possible, mon Dieu…
    -- Et les réformes de ces dernières années, vous en pensez quoi ?
    -- Ce que je trouve un peu cru, un peu dégueulasse même pour être vulgaire, c’est qu’en 2021, 2022, on a baissé le montant net attribué par jour, tout en disant à l’époque qu’on n’allait pas baisser la durée d’indemnisation. Et là, ils la baissent, maintenant. Franchement, c’est des chiens...
    -- C’est pour inciter les chômeurs à reprendre du travail, paraît-il.
    -- Franchement, ceux qui se complaisent dans ce système, c’est vraiment à la marge. Mais c’est comme dans tous les services publics, on le sait : moins d’accompagnement, mais plus de flicage. J’étais un peu idéaliste, en arrivant dans mon boulot. Là, je vois qu’à France Travail on me demande de plus en plus de fliquer les gens. "Moi, je ne suis pas là pour ça", je leur ai dit. Comme si c’était eux, les plus gros fraudeurs… Alors, quand un demandeur d’emploi ne vient pas à un rendez-vous parce qu’il est SDF, ben je ne le radie pas forcément. Parfois, les sanctions tombent automatiquement, les gens sont désinscrits de Pôle emploi pendant un mois. Pour ceux qui ont besoin de l’allocation chômage, c’est dur.
    -- Et pour les conseillers ?
    -- Parfois, j’ai besoin de faire des pauses, vingt minutes, parce que c’est lourd. C’est une source de stress, car on a tous envie de bien faire, alors qu’on n’a pas assez de moyens.
    -- La bonne nouvelle, c’est que les chiffres du chômage baissent. Il paraît qu’on va vers le plein emploi…
    -- Ah, ça, c’est les politiques qui parlent, mais ils ne voient pas ce qui se passe sur le terrain… Moi j’étais statisticienne avant, et du coup je suis un peu chiante de ce côté-là, je regarde les chiffres, pas juste ceux de l’Insee. Et sur le terrain, en plus, non, je ne vois pas de baisse. On a toujours autant de gens qui ne peuvent pas s’en sortir, alors la baisse, je ne sais pas d’où elle vient. Si : on décale des gens vers les catégories B, C, D, et ça fait baisser les chiffres. On envoie par exemple plein de gens en formation, ils ne sont plus comptés dans la catégorie A, alors que beaucoup d’entreprises de formation sont frauduleuses, je peux vous le dire. Franchement, elles prennent les subventions de l’état mais ne font rien derrière. Je demande toujours un retour aux jeunes quand ils reviennent. La plupart sont gênés : "Madame, désolé, je vais être franc, mais c’était de la merde." Ce n’est pas toujours le cas, bien sûr, mais souvent. »
    Ça me rappelait le courrier d’une lectrice, Hélène, à Toulouse, qui se désolait d’avoir reçu de France Travail une proposition de formation organisée par… Uber !
    « Bref, reprenait Rosa : on met la poussière du chômage sous le tapis, aux frais du contribuable. »
    Bidonner les chiffres

    La poussière sous le tapis, OK. Mais la poussière, à un moment, ça finit toujours par se voir : ça fait un tas, et puis ça déborde. Le taux de chômage remonte, en ce moment, à 7,5 %. Mais il y avait cette histoire de catégories, aussi, dont m’avait parlé Rosa, et qui me trottait depuis un moment dans la tête. Et qui m’aura valu de me plonger dans des piles de documents et de courbes…
    Qu’on résume, à gros traits : les demandeurs d’emploi à France Travail sont classés en différentes catégories, A, B, C, D et E.
    La catégorie A, c’est la plus souvent citée : les demandeurs actuellement sans emploi, disponibles, et qui n’ont pas du tout travaillé ces dernières semaines. Côté B, idem, mais le demandeur ou la demandeuse a travaillé quelques heures (moins d’un mi-temps en tout cas) le mois précédent. Pareil pour les étiquetés « C » : ils cherchent, mais ont travaillé, eux, plus d’un mi-temps le mois précédent, même en contrat court. Les « D » aimeraient un boulot mais ne sont pas disponibles de suite (parce que malades, ou en formation, etc.). Quant aux « E », enfin, ils ont un travail qui ne leur convient pas, et en cherchent un autre.

    En tout, ces catégories de demandeurs d’emploi représentent, aujourd’hui dans notre pays, 6,2 millions de personnes.
    Or, c’est là la première grande arnaque : depuis fin 2007, sur décision de Nicolas Sarkozy, l’Insee ne tient plus compte pour évoquer le chômage des chiffres de Pôle emploi, mais de la définition du chômage au sens du Bureau international du travail, plus restrictive encore que la seule catégorie A (celle qui s’en rapproche pourtant le plus). Résultat : on chiffre en fait à 2,3 millions de personnes le nombre de demandeurs d’emplois fin 2023 (contre près de 3 millions en catégorie A). Vous cherchez du boulot ? Vous êtes inscrit à Pôle emploi ? Mais vous avez travaillé quatre heures en intérim voilà trois semaines ? Vous n’êtes pas pris en compte dans les statistiques du chômage...
    Conséquence : on invisibilise, dans ces calculs, des centaines de milliers, des millions de chômeurs.

    Parlons dynamiques, maintenant.
    Avec actuellement 7,5 % de chômeurs, et après pas mal de variations ces dernières années (plutôt à la hausse, puis à la baisse), le taux de chômage (au sens du BIT et de l’Insee) est un peu au-dessus de ce qu’il était en 2008. Pas certain qu’il y ait de quoi pavoiser.
    Surtout que la courbe du nombre de demandeurs d’emploi à France Travail, beaucoup plus parlante, donc, après une baisse post-crise sanitaire, stagne et même remonte aujourd’hui au niveau de ce qu’elle était en 2015.

    Qu’on résume : la France compte 6,2 millions de demandeurs d’emploi inscrits à France Travail, soit grosso modo le même nombre que quand Emmanuel Macron est arrivé au ministère de l’économie en 2015, et ce chiffre est en train de remonter. Je ne sais pas vous, mais moi ça ne me donne pas franchement envie de sortir tambours et trompettes pour chanter ses louanges…

    D’autant plus qu’il y a les autres.
    Tous les autres.
    Celles et ceux qui ne figurent plus nulle part, ou ailleurs, « cachés sous le tapis », sortis des statistiques.
    Les découragés, les radiés, les auto-employés, les contrats aidés...

    Et ils finissent par peser lourd, tous ces gens, dans la balance.
    Très lourd.
    Combien, exactement ? Selon Bertrand Martinot, économiste à l’Institut Montaigne et ancien conseiller social de Nicolas Sarkozy (pas vraiment un crypto marxiste, donc), en cumulant toutes ces catégories, « on arriverait à sept, huit millions de personnes qui sont en souffrance » par rapport à l’emploi – ou au manque d’emploi, plutôt.
    De 6,2 à 8 millions : soit entre 20 et 25 % de la population active (30 millions de personnes environ). On est loin des 7,5 %...
    On est plus loin encore du plein emploi vers lequel on s’avance pourtant en chantant, d’après le gouvernement.
    La voilà, leur victoire « historique ».

    https://fakirpresse.info/extrait-des-chiffres-et-des-etres

    #statistiques #manipulation #France #chômage #travail

  • L’accordo Italia-Albania e la nuova frontiera dell’esternalizzazione
    https://www.meltingpot.org/2024/05/laccordo-italia-albania-e-la-nuova-frontiera-dellesternalizzazione

    di Kristina Millona , traduzione di Nicoletta Alessio La fine dei lavori di costruzione dei centri italiani in Albania che era stata stabilita per il 20 maggio, slitta a novembre. Ad aggiudicarsi la gestione dei centri di “accoglienza e trattenimento” nei siti di Shëngjin e Gjadër per 24 mesi è la cooperativa Medihospes che ha vinto la gara d’appalto con un’offerta di 133,8 milioni di euro (con un ribasso del 4,9%) . Negli ultimi decenni, l’esternalizzazione del controllo migratorio è diventata uno dei pilastri fondamentali delle politiche europee sui confini e il Protocollo Italia-Albania ne rappresenta una nuova preoccupante (...)

  • Migranti: tutti i dubbi sull’accordo Rama-Meloni
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Migranti-tutti-i-dubbi-sull-accordo-Rama-Meloni-231441

    Nonostante le incongruenze e le incertezze relative all’accordo siglato tra Roma e Tirana per l’accoglienza dei migranti in suolo albanese, e in attesa del giudizio della Corte europea, a Gjadër e Shëngjin i lavori per i due centri sono già iniziati. Siamo andati a vedere come procedono